11 volte.
In 9 anni.
In pratica ho scavato un solco, tra la Sicilia e la Tanzania (via Istanbul): se non fosse che è un solco aereo. Lo immagino come un ponte-scia di nuvole che sbiadiscono e poi si ravvivano.
La verità è che questo andirivieni mi ha imprigionato, e me ne sono reso conto sin dall’inizio.
E ogni partenza è diventato un ritorno verso altrove. E viceversa. Si soffre comunque, ma in maniera differente. È lì che risiede la prigionia.
Baba Salvatore ha provato a spiegarmelo con la perifrasi la spiritualità del ritorno.
Che a me, in effetti, sembra una maniera diplomatica per farmi accettare quella sensazione di smarrimento di chi si distacca da qualcuno o da qualcosa ma non vorrebbe e non ce la fa.
Ma poi – pensandoci bene – quello che fa davvero male è la partenza. E allora, cosa c’entra questa spiritualità del ritorno? E quale ritorno?
Ecco. Funziona suppergiù così - anche se in generale non funziona proprio per niente.
Nel 2014 ho toccato il suolo africano per la prima volta: e lo sapevo già che mi sarei irrimediabilmente ammalato, e non di malaria, di tifo, di dengwe o di febbre gialla.
Ho visitato orfanotrofi, qualche sobborgo, una scuola elementare di periferia, e il carcere dentro al quale venivano rinchiusi e torturati gli schiavi che poi venivano imbarcati e stivati per il nuovo mondo, un paio di secoli fa e forse più. Eppure, non mi spiegavo (e non mi spiego nemmeno adesso, se è per questo) il senso di accoglienza, sacro & umano allo stesso tempo, dei tanzani nei confronti di noi occidentali, di noi wazungu.
Il villaggio da cui quelle navi salpavano, col loro carico nero e dolente, si chiama Bagamoyo. Ed è una sorta di paradiso triste. In antico swahili, Bagamoyo vuol dire: lascio il mio cuore.
Quando ho preso il volo per ritornare a casa, sapevo che stavo ritornando a casa. Ma – proprio per questo – mi allontanavo da quei luoghi che così tanto mi avevano riempito, lasciandomi in quel momento un vuoto irredimibile. (Lo so che è un ossimoro, ma è proprio come lo sentivo davvero). Quella però era la prima volta, e non sapevo se sarei mai ritornato in Tanzania.
E invece ci sono tornato altre 10 volte, e quest’anno andrò per la dodicesima: e niente, si sta male uguale, mi sa che non riesco proprio a metabolizzarla questa spiritualità del ritorno.
Magari è un modo che hanno i religiosi, i credenti, per dare un nome a quella che noi pagani chiameremmo semplicemente: malinconia. In swahili, una bambina la chiamò Melonko.
Era lo scorso anno. Agosto 2022. Morogoro. Andavo in missione, a Kitanewa da Baba Salvatore, e a metà strada mi fermo a visitare il centro “Amani”. È un caseggiato circondato da un muro tenue e chiaro, dentro al quale risuona la gioia ed echeggiano i giochi dei bambini. E poco altro. Se non fosse che è un centro disabili.
Sono bambini di ogni età nati con malattie, difetti fisici, malformazioni: nati & abbandonati. Non hanno nome, non hanno casa, non hanno famiglia. “Gli ultimi degli ultimi”, ha azzardato un sorriso Ndugu Rikardo, forse per farmi sentire meno il peso.
Uscendo dal Centro Amani, mi sono imbattuto in un disegno colorato su un muro, con una scritta altrettanto colorata. Nenda. Ukitukumbuka.
Vai. Ma non dimenticare.
Dunque è un andare, ben sapendo che si torna, in qualche modo.
Quando ho respirato per gli ultimi attimi la notte di Dar Es Salaam prima di infilarmi dentro l’aeroporto, l’ennesimo silenzio mi è piombato addosso come una colata di basalto. E mi è venuto in mente questo fatto qui, delle partenze che poi sono ritorni, e dei ritorni che (girala come vuoi) alla fine sono sempre partenze. Fanno male. Anche se percorri solchi aerei tra la Sicilia e la Tanzania (via Istanbul), anche se all’alba vedi il corso del Nilo così come il sussidiario di scuola elementare lo descriveva, e l’aurora smiela gli altipiani sudanesi. Anche se volteggiare sull’Etna è sempre una emozione risaputa, e lo Ionio sembra somigliare un pochino dall’alto all’Oceano Indiano.
E se anche Baba me la chiama spiritualità del ritorno, per me sarà sempre la malinconia della partenza, con quel vuoto che invece è sbornia di pienezza, e con quei legami magici che riescono a donare vertigini di libertà.
E viceversa.
Giuseppe Cusumano è nato nel 1968 in un paesino del Polesine che oggi non esiste più, da genitori etnei di Militello in Val di Catania. Vive a Ragusa da oltre 40 anni e scrive quasi da sempre, da mancino corretto: ama la musica, nuota e si diletta di fotografia, ha praticato calcio e arti marziali, si nutre di libri, di natura e di umanità.
Risulta curioso, poco ortodosso, distrattamente attento, dotato di ottima memoria - e anche per questo dicono soffra di ‘retrotopia’.
Di professione Malaùssene, da nove anni coordina un Progetto di volontariato (nato in Ambasciata e radicato presso la missione di Kitanewa) per la costruzione di scuole di ogni ordine e grado nella regione di Iringa, in Tanzania, e continua a farsi correggere i compiti dalla sua prof di lettere.
Ha pubblicato diversi racconti e articoli, un diario di viaggio africano (Quaderni tanzani, OperaIncerta Editore), un romanzo (La terza banca, La Zisa Ed., recensito su Repubblica), e incredibilmente una raccolta di poesie (Minimalia, Libro Italiano World Ed.).
Saltuariamente ha scritto su un blog, ma non è cosa sua.
In compenso, a breve pubblicherà il suo nuovo romanzo, ambientato in Africa, dal titolo Agli elefanti invece sì, editore cercasi.
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