Venire al mondo
e portare in faccia i tratti
di chi è venuto ad anticiparti
nella storia che tu continui.
Crescere sul destino che è già iniziato,
trovarlo già scritto,
alla lettura nei muri e sui volti,
il destino ha un lungo passato.
Con mano te l’hanno costruito
la parola che ti è nata in bocca,
sulla lingua nessuna traccia d’inchiostro
ti macchia le carte,
nessuna scrittura ha legato le mani
alla voce che ti è uscita crescendo.
Le parole che ti hanno insegnato non aprono nessun libro
ma ti hanno fatto entrare in questo mondo
che ha detto il tuo nome con la voce di tuo padre
e le labbra di tua madre,
poi ogni nome di cosa ti è uscita dalla bocca come una folla
e il mondo è entrato tutto nelle tue parole
e tu nel paese che dà inizio alla tua storia.
Venire al mondo,
e dell’ulivo e la zabbara
avere la radice
incastrata nella retina
che come la terra registra ogni pianta
e in ogni luogo gli uomini.
Nell’occhio
la memoria
è entrata in questo punto preciso di mondo
dove rurale
è la parola che ha costruito
tutte le anime.
Percorrerle le strade
che di catrame coprono
la pietra nuda
segnata dallo zoccolo degli armenti,
rifare il cammino
del pastore
col belato nell’anima
di latte munto,
stare sul passo del bracciante,
col giorno spuntato nell’occhio
nero della notte.
Rifare il cammino
di chi ha portato sino a te
l’unica cosa che i tuoi occhi
possono vedere dappertutto
e che tu chiami realtà,
quella in cui per la prima volta hai messo i piedi,
nel di fuori che dilata il mondo,
inizia proprio dalla tua strada.
Avere della nascita la data fissa del luogo
e quella della fine aperta nel mondo
con una provenienza di sola andata,
fra tutte le stazioni scritte sulla fronte,
il ritorno è l’unica fermata.
Scendendo
mia madre mi ha tagliato il filo della distanza
e sul petto mi ha ricucito, di rientro, tutta la lontananza,
nella sua mano nessun tremore,
ferma d’attesa solo la pazienza:
a luntananza è un viaggiu c’accumincia sempri.
Il paese era piccolo dentro la valigia,
ripiegandomi i ricordi nel bagaglio
mia madre
me li ha richiusi con la cerniera lampo d’una cicatrice
mettendo nelle pieghe tutta la cura dell’infanzia.
Ovunque si nasca è per venire al mondo
con la data d’un posto inchiodata all’entrata,
a volte il luogo è una via,
a volte il luogo è un nome,
Pensato Angelo fu scritto
e fu la via e fu il nome,
sulla carta fu identità.
Dal palazzo che fonda il paese
l’inizio
è la strada che scende,
declina,
degrada
a valle
scarica
la pendenza,
frana
la trazzera che la porta a vadduni.
Non è che un fianco di collina il paese
sul quale scivolano le stagioni,
in contrada Stazzone pendevano tutte le piogge.
U Stazzuni dicevano gli uni,
u Fummazzaru la chiamavano gli altri
la discarica a cielo aperto.
Due toponimi,
cinque vie
confluenti come torrenti in un luogo
organico in principio
e lieto
sul latino della lingua,
laetere fertile, laetus lieto il letame delle stalle
fumier nella lingua che mi ha dato la parola strania,
Fummazzaru è un nome che concima,
Stazzuni un nome che costruisce
di pantofuli e canali li casi (scupicchiati)
“Arti di crita misira e minnica,
ma si ti ‘nzerta ti vesti di sita”,
“cunzari” l’argilla d’acqua e di rina,
un “mastru di crita”
pi vestiri i casi di cocciu nfurnatu
quattru mura ri pantofuli
cupunati ri canala
c’arriparanu u sciatu
du scieccu e di l’armali
ca di nvernu scuscianu a quariari.
In contrada Stazzone pendevano tutte le case,
dietro casa mia tutti i rifiuti.
Fummazzaru: luogo dove si vanno ad ammazzare
le cose d’abbandono.
Stazzuni:
luogo
abusivo
all’uso,
fuori uso:
uso del di fuori
quando dentro si è consumati.
Carusu ho usato il di fuori
portandomelo dentro
mai tutto sano
ma a pizzudda
ce lo dividevamo
iucannu a quattru cazzotti
o a patri vardianu.
Su una tabella il divieto,
sui nostri giochi
vietato
scritto in un reticolato bucato:
«Vietato gettare i rifiuti».
Bande, sfide, battaglie,
con lo scudo d’un cartello stradale,
l’Anas ci proteggeva dalle pietrate
e ci indicava la direzione,
deviazione,
incrocio,
pericolo,
priorità,
alta velocità,
tra il nero pece degli olii usati,
i cani avvelenati,
i medicinali scaduti,
i televisori catodici sventrati,
il giallo delle margherite
passava subito al verde dei prati
una corsa tutta in testa coda
una Targa Florio fuoristrada,
i segnali stradali avevano abbandonato la strada,
la direzione era sbandata,
col rosso fulminato
scoprivamo che divieto
era una parola fatta di reticolato
con un buco come un fanale
sulla scritta vietato.
Giocavamo a riciclare l’inospitalità,
in un parco giochi proibito
ho imparato tra l’eternit e i fiori
la parola amore
buttata tra le lettere di una discarica abusiva
dove, tra i rifiuti indifferenziati, finisce la corsa
degli amori consumati.
Senza cognome
ma come un francobollo il nome,
il destinatario segnato
come un pezzo di destino,
con uno scarto d’intimità tra le mani
e la calligrafia d’altri tempi
l’inchiostro mi è cresciuto dentro
come un fiore.
Salvatore La Tona nasce in Sicilia nel 1975. Nel 1997 lascia l'Italia per stabilirsi in Francia dove dal 1997 al 2000, sans-papiers, lavora come operaio. Nel 2001 riprende gli studi universitari fino al dottorato di ricerca. Durante la stesura della sua tesi, Luoghi, Memoria e Professione nella Poesia di Cesare Pavese, ha pubblicato articoli e partecipato a conferenze e convegni. Collabora con diversi musicisti, poeti, registi, attori, collettivi, operai, contadini. Ha scritto testi e poesie “d’inchiesta” per molti documentari e cine-reading oltre che letture-concerto nell'ambito di festival e incontri vari. Dal 2018 organizza il Festival del Torto, nella valle del Torto, in Sicilia, e dal 2023, a Strasburgo, il Festival MéditerRhin.
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