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Quello che nessun media vi dirà

Giuseppe Cusumano 14 ottobre 2023


Da qualche giorno seguo con crescente apprensione gli sbarchi a Lampedusa. Sono stato per due volte al Centro d’Accoglienza (odio la parola anglofona ‘hotspot’, ma ancora di più l’istituzionalizzazione di un parcheggio di esseri umani), e la quasi totalità delle persone è africana, in fuga da guerre o da disastri comunque creati dal mondo ‘evoluto’.
È sotto gli occhi di tutti il disastro umanitario che si va consumando – su ogni fronte – tutti i santi giorni, e a poco giova ricordare che gli strumenti per operare ci sarebbero pure, ma che evidentemente, a parte le sfilate europee e le apparenze mediatiche, non sussista alcuna volontà effettiva di risolvere il problema. Anche perché, da che mondo è mondo, questo tipo di problema nasce sempre da pretese economiche, è inutile girarci intorno prendendosela con le vittime di un sistema.
Allora, meglio alzare cortine di fumo o far finta di niente. Chi lucra su tutto ciò continuerà a farlo, utilizzando ogni schermo possibile come strumento di distrazione delle masse.
Per altri versi, confrontandomi con amici esperti in ambito di politica estera, sento dire che l’Africa sarà il continente del futuro. Lo sarà probabilmente in quanto la natalità è ancora parecchio elevata, e perché le nuovissime generazioni si dimostrano parecchio curiose ed aperte ad ogni influenza culturale; e in più, le risorse naturali sembrano quasi illimitate, a dispetto dell’indiscriminato sfruttamento occidentale (ed anche orientale); ed infine, in quanto gli africani (e non gli occidentali) hanno una capacità di adattarsi e di resistere a qualunque sovrumana avversità.
Ma nell’immaginario ‘civilizzato’, l’Africa è una terra oscura, misteriosa e primitiva, dentro alla quale ribollono guerre cruente e pandemie devastanti. Tanto più che i media di qualunque latitudine si guardano bene dal fare informazione reale e corretta – in Italia, poi, l’argomento ‘Africa’ viene tirato fuori periodicamente per solleticare bassi istinti populistico-elettorali. Meglio allora parlare dei blocchi navali o dell’ipocrita sentenza << Aiutiamoli a casa loro >>, oppure del Kilimanjaro e dei parchi Serengeti o Ngorongoro, piuttosto che spiegare come mai da noi pullulino i Cara e i Centri d’Accoglienza, per esempio, generando flussi opachi a favore della ‘politica’: oppure meglio esibire programmi tv con ‘safari’, paleontologia e  acque cristalline dell’Oceano Indiano, piuttosto che mostrare lo sfruttamento dei bambini nella raccolta del coltan, in Congo, o le trivellazioni selvagge tra Botswana e Namibia (per petrolio e gas da parte dei canadesi), nella incontaminata regione dell’Okavango, con l’avvelenamento di un intero ecosistema sudafricano.
E mi fermo qui.

L’unico punto di partenza che posso utilizzare in questo momento è il fatto incontestabile che il continente africano sia il più ricco dell’intero pianeta: e che basterebbe razionalizzare ed equamente distribuire le sue risorse naturali per vivere tutti insieme, su questo pianeta, in maniera comoda e pacifica.
E invece no.
Meglio sfruttare e sottomettere, per esempio anche spodestando i Maasai dalle loro ataviche terre, o incendiando chirurgicamente la savana in Angola e in Rhodesia (oggi Zimbabwe e Zambia meridionale), e poi lasciare alla narrazione occidentale il compito di sciacquare le proprie colpe (e i propri crimini), descrivendo l’Africa come un continente irrimediabilmente arretrato ed incapace di prendere in mano le redini del proprio sviluppo, e destinando alle sue impoverite popolazioni unicamente gli sms di pietismo e la beneficenza pluralia tantum.
Nel frattempo, dopo i rinoceronti anche gli elefanti e i leoni iniziano ad essere specie sempre più protette, e come se non bastasse certe organizzazioni internazionali discaricano milioni e milioni di capi d’abbigliamento usati in Ghana inquinando vastissimi territori: in pratica, la carità dei nostri armadi ripuliti sta creando un terribile impatto ambientale (in Kenya e in Somalia questo avviene, invece, con la plastica dei nostri beni di consumo). E mi fermo qui, per non toccare l’argomento ‘bambini’.
Il sanguinario Leopoldo II ridusse il Congo, uno Stato ben 76 volte più grande del ‘suo’ Belgio, ad una sua proprietà privata, compiendo efferate stragi di schiavi (si pensa che tra il 1885 e i primi anni del ‘900 siano state più di 10 milioni le vittime, compresa l’ultima, illustre, nel 1963, di nome Patrice Lumumba) in nome del caucciù, dell’oro e dei diamanti. Evitando di ricordare delle mire colonialistiche italiane (il celeberrimo ‘posto al sole’ rivendicato dal duce) in Etiopia e Somalia, possiamo anche parlare del propagarsi dei nazisti sul lato orientale del continente nero, partendo dall’Egitto per finire in Tanzania; della presenza utilitaristica dei britannici qua e là, dal Somaliland al Kenya e fino in Nigeria e Gabon; dello sfruttamento subdolo ed emorragico dei francesi (grazie al sistema valutario del “CFA” e – ancor più di recente – grazie all’ “Eco”) lungo tutto l’arco occidentale, partendo dagli Stati del Maghreb per finire al Senegal, e da lì In Burkina Faso (ricordate Thomas Sankara?), Costa d’Avorio, Niger e Mali, Camerun e Ghana. E poi gli olandesi (dall’Angola, da sempre possedimento portoghese, fino al Sudafrica). E, a proposito di portoghesi, il Marocco, il Senegal, oltre all’Angola, Capo Verde, Mozambique, São Tomé & Principe, e Guinea, erano colonie sulle rotte degli antichi navigatori lusitani.
E come se non bastassero le risorse naturali, minerarie e del sottosuolo, Zanzibar e il Tanganyka, così come il Dahomey, la Costa dell’Oro (oggi Ghana e Camerun) e il Senegambia, sono testimoni delle tratte di tutti quegli schiavi che venivano imbarcati e deportati in giro per il mondo via mare. Ma, a pensarci bene, anche oggi – sotto diverse forme – non stiamo forse assistendo a una vera e propria mercificazione in chiave ‘evoluta’ di schiavi provenienti soprattutto dalle terre africane? I quali vengono rapiti, prelevati, deportati nel modo peggiore, e poi stoccati in Italia dopo aver subito mesi e mesi di torture nei lager libici, per proseguire – forse - verso altrove?
Vogliamo fare qualche esempio?
Gran parte degli africani che traversano disperatamente il Mediterraneo, ammassati su improponibili bagnarole, provengono da Somalia (ed Eritrea), Nigeria, Senegal, e poi anche Gambia, Costa d’Avorio, Sudan (ultimamente in tanti dal Sud del Sudan, dove impazza una delle più cruente guerre degli ultimi anni: ne sappiamo qualcosa dai nostri illustri media?).
Come mai? Bene.
In Nigeria, le grandi compagnie petrolifere mondiali (americane, francesi, inglesi, e pure l’Eni) trivellano in ogni dove, bruciando e inquinando fiumi laghi e villaggi, alla ricerca del ‘Blue Light’, questo petrolio raro che necessita di pochissima raffinazione. Le coste sono rovinate, interi territori prosciugati, migliaia e migliaia di famiglie disperse via, senza più niente da cacciare, coltivare e dunque mangiare, senza più radici né tradizioni o unità (consiglierei, a riguardo, la lettura del grande scrittore e saggista Chinua Achebe). In un quadro di prolungata instabilità sociale, politica ed economica, ecco fiorire il gruppo jihadista Boko Haram e imperversare l’esercito, più o meno regolare, in ogni dove, e come se non bastasse il pullulare di pirati davanti alle coste ad assaltare le petroliere straniere.
E in Somalia? E in Angola? E in Congo? Sono situazioni solo territorialmente diverse, ma con matrici egualmente riconducibili alle situazioni di instabilità create dall’occidente. La Somalia è uno sbocco a mare che ostruisce il passaggio all’Etiopia, laddove la Somalia è un instabile enclave musulmano, legato pertanto al mondo arabo e percorso da decenni di guerriglie senza quartiere tra clan, tribù, ‘warlords’ ed estremisti, l’Etiopia è finanziata dai soliti ‘yankees’, terreno com’è di petrolio, oro e platino, e chi più ne ha più ne metta. E si sa che creare conflitti gioca a favore proprio di chi sfrutta quelle risorse, un po’ come ciò che succede in Congo, e in particolare nella regione del Kivu, al confine con Rwanda e Burundi (Sud Kivu) e con Uganda (Nord Kivu), da oltre 30 anni. L’Angola, invece, sembra uscita fuori dalle devastanti guerre interne iniziate nei primi anni ’70, ma a quale prezzo? Ancora oggi, milioni di famiglie sopravvivono in piena povertà (e dire che l’Angola è una miniera di diamanti!), proprio come in Uganda (patria di oro e anche di petrolio) e – ancora non del tutto – nella Liberia dell’ex calciatore del Milan George Weah, che ne è l’attuale presidente (miniera di oro, diamanti, magnetite e ferro, e anche di produttrice di legname).
In questi ultimi mesi stiamo assistendo però a movimenti strani sullo scacchiere del Risiko mondiale. Le organizzazioni atlantiste si muovono in sincrono intorno alla Russia ed ai paesi asiatici, primi fra tutti Cina, India, Pakistan (i cosiddetti ‘Brics’). Basti tenere a mente la guerra in Ucraina, la sua genesi (al netto delle ‘devianze’ mediatiche) e la recente adesione alla Nato di due degli Stati scandinavi: e proprio adesso un nuovo focolaio, lungo quel fronte, è stato appiccato tra l’Armenia e l’Azerbaijian, arbitro l’alleata Turchia di Erdogan. Sarà un caso? Le narrazioni qui da noi risultano abbastanza unidirezionali, e a volte qualche particolare potrebbe sfuggire ai più disattenti. Ma di fatto, si è creata una ‘strana’ cintura (casuale?) proprio a ridosso del colosso euro/asiatico, il quale ha pensato a una contromossa.
E allora, proprio i russi di recente si sono offerti ‘volontari’ nell’offrire il loro aiuto (quanto disinteressato è lecito chiederselo) a quegli Stati africani reticenti alle catene valutarie (e non solo) della Francia (tonnellate di gas pagate con qualche pugnetto di mais e fagioli), e soprattutto con più di un risentimento nei confronti degli sfruttatori occidentali tutti. E intanto, prima il Niger e poi il Gabon hanno dato un seguito ai primi strattoni tirati dalla Repubblica Centroafricana, dal Mali e dal Burkina Faso. E anche il Senegal mostra per la prima volta i denti a Macron.
Che succede? Succede che la Russia ha allargato il gioco su altri fronti, un diversivo o semplicemente una ‘restitutio’ nei confronti dei membri atlantici, tra i primi quelli meno sopportati nel continente nero.
Succede che i paesi del Sahel, soggetti al salasso francese, abbiano preso coscienza, ascoltando il malcontento interno, e abbiano deciso di riprendere in mano il proprio destino, supportati dal colosso russo.
Succede che, a dispetto della scarsa esperienza sovranista, la nuova classe politica e militare sia formata da giovani molto più istruiti che in passato, e a maggior ragione in cerca di riscatto.
Succede che le lezioni di Lumumba, Sankara, Gheddafi, e anche di Nyerere, abbiano finalmente trovato terreno fertile e adesso mostrino i primi germogli di un futuro più consapevole. Uno di questi sembrerebbe il giovane capitano ‘burkinabé’, Ibrahim Traoré.
In fondo, il contatto del mondo africano avviene in mille modi che non soltanto per via ‘migratorie’: pensiamo ai musicisti (da Youssou N’Dour a Fatoumata Diawara, e prima ancora Fela Kuti) o agli scrittori (da Achebe ai Nobel, Wole Soyinka e Gurnah, fino alla splendida Chimamanda Ngozi Adichie), e non escluderei in ultimo neppure i calciatori che oramai fanno bella presenza nei campionati di tutta Europa, coi loro sponsor al seguito, riportando indietro nei rispettivi paesi euro guadagnati ed esperienze maturate.
La strada sarà dura, ma deve andare di pari passo con la crescente scolarizzazione (in Benin, Burundi, Malawi, Tanzania e Namibia, si investe sempre più sull’istruzione, ed esistono progetti anche in Madagascar, Camerun, Guinea e Congo), anche approfittando di aiuti ‘esterni’.
In ogni caso, la via pare tracciata, e reggerà (o meno) sul fragile equilibrio tra inesperienza e crescente volontà di riscrivere la propria storia.
I nostri figli sono le frecce scagliate verso il futuro”, ha scritto un poeta africano.
E allora speriamo che questi figli possano sin d’ora costruire la ‘loro’ Africa, lontano dalle solite rotte, sempre più consapevolmente dentro alle proprie terre e con le proprie famiglie.
E che quel mondo migliore del quale vanno in cerca, gettandosi disperatamente in mare (per rubarci il nostro lavoro? Ne siamo davvero sicuri?...), possano trovarlo dentro ai loro villaggi.
E che il loro futuro sia appena cominciato.

Giuseppe Cusumano

Giuseppe Cusumano è nato nel 1968 in un paesino del Polesine che oggi non esiste più, da genitori etnei di Militello in Val di Catania. Vive a Ragusa da oltre 40 anni e scrive quasi da sempre, da mancino corretto: ama la musica, nuota e si diletta di fotografia, ha praticato calcio e arti marziali, si nutre di libri, di natura e di umanità.
Risulta curioso, poco ortodosso, distrattamente attento, dotato di ottima memoria - e anche per questo dicono soffra di ‘retrotopia’.
Di professione Malaùssene, da nove anni coordina un Progetto di volontariato (nato in Ambasciata e radicato presso la missione di Kitanewa) per la costruzione di scuole di ogni ordine e grado nella regione di Iringa, in Tanzania, e continua a farsi correggere i compiti dalla sua prof di lettere.
Ha pubblicato diversi racconti e articoli, un diario di viaggio africano (Quaderni tanzani, OperaIncerta Editore), un romanzo (La terza banca, La Zisa Ed., recensito su Repubblica), e incredibilmente una raccolta di poesie (Minimalia, Libro Italiano World Ed.).
Saltuariamente ha scritto su un blog, ma non è cosa sua.
In compenso, a breve pubblicherà il suo nuovo romanzo, ambientato in Africa, dal titolo Agli elefanti invece sì, editore cercasi.

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