In memoriam di Jacques Prévert.
(TRECCANI) Dimenticare: il verbo deriva dalla parola mente e ha come significato letterale quello di cancellare dalla mente, che non significa solo cancellare dalla memoria, ma anche eliminare dai propri interessi, dalle proprie priorità o dai propri affetti, quindi trascurare (d. una persona; il marito la dimentica spesso; è morto solo e dimenticato da tutti; d. la scuola, i propri doveri)
Il mio corpo – soltanto per te –
deve emergere a ogni gesto limpido
e profondo dev’essere il mio futuro
per trattenerti e ricrearti permanente.
Le piante di menta erano come degli specchi per lei: in un certo modo riflettevano, con generosità, la sua immagine. I capelli grigi e folti, il viso delicato, abbastanza delineato e le mani rugose. Era facile coltivare e far crescere le piante di menta. Secondo la sua modesta conoscenza di erboristeria bastava poca acqua e qualche sporadico raggio di sole per tenerle vive e appuntite. Dopo averle raccolte ci preparava infusi aromatici e anche un’essenza balsamica con cui si profumava il corpo dopo aver fatto il bagno. A lei piaceva il contrasto fra la pelle calda e la freschezza aggressiva della menta. Le foglie morte servivano come cibo per le altre piante. Che sorpresa passeggiare per il giardino e soffermarsi davanti alle piantine di menta, arrogantemente disposte in fila. Le foglie verdi e rampicanti rilasciavano al tocco un profumo fresco, pieno di linfa, che durava tutta la giornata. Lei si ricordava del profumo di lui, era sempre stato un effluvio grezzo e pungente. Che tipo di memoria avevano le piante? Le foglie di menta si sarebbero ricordate della presa salda di un uomo, di una mano maschile che sale fino alla scollatura. Sarebbe stato più facile fidarsi del riflesso di una foglia di menta che della propria memoria, pensò.
Lui arrivò tardi dal lavoro, appoggiò lo zaino di cuoio verde sul divano e le stampò un bacio fra il mento e la scollatura. Questo primo bacio era sempre timido e veloce, le faceva pensare a una puntura. Così come il rumore delle forbici quando tagliava le foglie di menta dalla pianta. Lei invece si affidava devotamente alle sue mani e trascinava il suo corpo verso di lui. Si amavano intensamente e lei, guardando le piantine, pensava ai fili bianchi e chiari di linfa, spessi e lenti, che raggiungevano le estremità di ogni foglia. Da quale parte del suo cervello saltava fuori questa immagine potente della linfa? Pensando alla mano di lui, assente, non avrebbe potuto dimenticare la linfa in eccesso che la raggiungeva lentamente. La privazione del corpo di lui non le permetteva di staccare lo sguardo dalle mente, rivolta verso il proprio giardino come se fosse una straniera, una pellegrina. La solitudine delle piante, con il loro muoversi lento, era per lei rassicurante, una solitudine eternamente presente.
Non sono mai sole le piante di menta, si rigenerano. Hanno freddo? Come lui, che non c’è più, dovrebbero coprirsi durante l’inverno trascorso in montagna? Doveva convincersi una volta per tutte che non provano niente queste piantine, né dolore né compassione. Era lei che provava un dolore infinito, un dolore assillante. Erano solo delle piantine, stavano lì perché un giorno un seme aveva deciso di germogliare e le sue radici avevano sviscerato la terra. Le radici del dolore giungevano fino all’avvallamento marino. Suo marito non c’è più perché una piccola ruga rossa inoffensiva era, in realtà, il segno di una lunga malattia distesa su tutta la sua cute. I dottori ripetevano che non sarebbe stata così aggressiva la malattia se l’avessero scoperta prima, però la pelle di suo marito non era come le piantine di menta del giardino. La pelle non svelava nessun segreto. All’ospedale avevano trovato il cancro tramite una biopsia dettagliata del tessuto mentre le foglie della biopsia non ne avevano bisogno. Bastava guardarle che ti avrebbero raccontato tutto. Lei non riusciva più ad entrare nella stanza di lui, era rimasta una parte sigillata della casa. Le faceva male pensare ai suoi oggetti, agli scaffali colmi di libri e a come li lasciò riposare dopo la sua scomparsa. Dopo la morte, gli oggetti che continuavano a vivere e a decomporsi non riposavano né trovavano conforto. Continuavano a cambiare e a trasformarsi. Il pulviscolo diventava una ragnatela ordinata, quasi simmetrica. Le ragnatele poi facevano spazio ad altri animali e insetti che lei non conosceva. Forse c’erano addirittura funghetti ed ecosistemi a sé stanti, che esistevano senza che nessuno intervenisse. Prima di dormire lei pensava a tutto l’universo che un giorno avrebbe potuto trovare se fosse entrata nella stanza di suo marito. Questo pensiero le permetteva di riposare, di dormire per ore, con tranquillità.
Stavano in pace le foglie di menta, con la pioggia o senza. Succhiavano l’acqua dalla terra attraverso dei piccoli tubi vegetali, ramificati e disordinati. Perché fidarsi di un’immagine, pensò lei. Forse non c’erano né tubi né ramificazioni, era tutta una scusa creata per spiegare l’esistenza delle piante. Spiegare era un modo di evitare il dolore, disse a sé stessa. Però era impossibile trovare una spiegazione per ogni cosa e solo accettando l’ignoranza lei avrebbe potuto gestire il proprio dolore. La affliggeva affrontare il proprio dolore, le pungeva fino alle ossa. L’afflizione è come una gabbia, pensi di non poter scappare. Le piantine di menta le facevano dimenticare l’afflizione che sentiva quando si rendeva conto della sua solitudine. Il suo respiro, forse como quello delle piantine di menta, doveva essere lento e profondo: un soffio lungo che partiva dalla gabbia toracica e saliva. Un respiro che pizzicava, ma era liberatorio. Aveva imparato a essere libera grazie alle piante, che non si spostano mai.
Lei non toglieva lo sguardo dalle piantine di menta, era il verde potente delle foglie a ipnotizzarla. E poi come stavano disposte le foglie, come imparavano a crescere e a morire. Poteva trascorrere tutta la giornata a guardare le foglie di menta, e si sarebbe fatta tante domande:
come dimenticare lui e il suo passo lento e misurato
come dimenticare il giorno del suo compleanno
come dimenticare il giorno in cui era scomparso
come dimenticarsi di vivere?
All’improvviso un vento potente spazzò via da terra le foglie morte. Un flusso d’aria così forte da tenere entrambe le finestre spalancate, un refolo proveniente dalle viscere della terra, dove hanno radici le piantine di menta. Lei stessa pensò di non avere più radici. Era un vento persistente da far tremare le gambe. Lei vacillò e cadde. La testa fu l’ultima parte del suo corpo a toccare il suolo ricoperto di foglie morte di menta. L’impatto fu abbastanza forte da rompere il suo cranio fragile e piccolo. Un attimo diventò un’eternità, ma lei continuò a guardare le piantine. ‘È come se il dolore stesse per finire’ disse prima di non poter più pensare. Le piantine di menta non dimenticano mai.
Vorrei ringraziare due cari amici: Elia per la lettura attenta e generosa, per le correzioni (essenziali) che ha apportato al testo e Celia per questo poema di Lupe che mi ha fatto leggere.
Ettore Botti (São Paulo, 2000), è uno scrittore italo-brasiliano multilingue. Attualmente vive a Ragusa.
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