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Batrace

Giuseppe Cusumano 14 novembre 2023


Ed eccolo là, con gli occhi che improvvisamente gli si accendono sotto il peso inerte delle palpebre, e insieme a loro il murmure elettrico della sua mente, fuori dalle imposte pigre è silenzio di pomelia e oleandro in una ovatta tortora, il tentacolo viscoso delle lenzuola intorno alla schiena e tra le gambe ora gli fa sudare pure l’acqua del battesimo, forse sarà stato lo sparo d’un cacciatore oppure una delle sue puntuali apnee notturne (a volte riesce persino a sentirsi russare), è il momento in cui avverte intollerabilmente ogni elastico sulla pelle, e persino il sussurro fiacco di qualche foglia fuori in giardino riesce ad innervosirlo, con la mano cerca confusamente la sua borraccia pervinca sul pavimento di cotto, sa già che suderà ancora quel poco che gli resta da sudare, ma la sua arsura è lì a condurre il suo ossessivo torpore come una falena verso il tremolìo della candela: da qualche parte sulla medesima mattonella (o poco più in là, a portata di polso) deve aver poggiato anche “Finzioni” di Borges, è stata quella l’ultima immagine riflessa dallo specchio a parete, una fessura curvilinea sul muro di finta calce, gimkana d’un ragno notturno / tutto è curvo nella sua camera, il letto rotondo e i comodini ma le mensole ellittiche, e il lampadario simil etnico che ipotizza come una molecola di Dna in ebano e fibre di baobab oscillare lievemente non appena le pale del ventilatore mugolano, a rimestare quella umidità vinilica di certe notti mediterranee come quella – vorrebbe alzarsi, ora qualche grinza gli ricama la fronte e anche ciò che rimane di labilmente esposto dell’ossame del suo sterno nudo, gonfio come un batrace in andropausa e senza quasi più mangiare chissà che, soprattutto la sera: il guaio è che cena sempre troppo tardi, si dimentica e non guarda mai l’ora, così come non guarda quasi mai il calendario, persino al lavoro è così, spesso è il telefono a cinguettare fuori tempo massimo, o una marmitta fuorilegge di là dalla vetrata del suo ufficio (pirandellianamente), oppure ancora un nuovo pensiero che irrompe e rifluisce come un affluente muto - dentro lo stagno della sua concentrazione quotidiana - dovrebbe esserci abituato, il lavoro come la vita è tutto un porre argini piuttosto che un lasciar scorrere, eppure è continuamente soprassalto di dimenticanze, di vuoti e di risacche, di rincorse, di correnti sotto le solite superfici, di polvere che cova sotto tappeti di rappresentanza, lui che a malapena ha disteso un manufatto beduino di cotone grezzo & seta nei pressi dell’ingresso di casa sua, lato principale, nemmeno a Tozeur o a Ouarzartate ha sofferto un caldo indigesto o una insonnia ardente come questa – come queste – tra l’altro qualche zanzara deve avergli fatto un prelievo sulla mano, l’indice sinistro gli fa prurito e allora la strofina compulsivamente sul coprimaterasso sgualcito (anche se non vorrebbe e non è consigliato), in fondo è soltanto saliva di un insetto incinto, e continua a incendiarsi quella nocca sopra una increspatura di cotone molle con motivi corallini & stelle infantili, pensa che dovrebbe lavarle ogni tanto, queste lenzuola, non dico abbinarle nei colori e nello stile, l’ultima volta lei lo aveva preso in giro per quei disegni di pesci & fondali come di una mano d’asilo nido, quella sua risata adolescente lo aveva indotto – più che invogliato – a spingerla sul letto e a giocare con le mani ovunque, sempre meno candidamente, dalla sezione curva dello specchio avevano preso ad affiorare di volta in volta barlumi di pelle nuda, contorcersi d’arti tesi, linee arcuate di muscoli, ansiti e cadenze, e poi pieghe di tessuti e contorsioni di federe, e adesso, proprio adesso si sente madido e tirato come allora, senza lividi o affanni, ma niente: non riesce a mettere a tacere il vortice di ansie, quell’ululato di tensioni, come l’insorgenza di un acufene, intanto nella borraccia pervinca l’acqua è finita così come è trascorso agosto, l’ennesimo agosto, per lui il ciclo vitale di un anno inizia e finisce con l’estate – immutabilmente così -  con l’ingigantirsi delle ombre e con gli ultimi passaggi del camion della spazzatura di lì a poco, non sa se è meglio svegliarsi di soprassalto con quell’afa notturna oppure se è preferibile smaniare sotto una torrida trapunta quando fuori si sente soltanto lo svolazzo di colombi intirizziti in un barbaglio malva: ma ora intanto le lame di luce ambra osano scandagliare sempre più obliquamente quel suo spazio denso, dentro al quale levita senza tempo un microcosmo di pulviscolo, e si inabissano fino a spandersi sul suo sudario senza requie - la zanzara danza ancora lì intorno e il suo ronzio è ipocrita come l’emittenza di un rosario mattutino, o il flex che digrigna fuori orario, oltre il suo muro un passaggio di lavoranti delle serre intorno, forse ciclisti, una marmitta illecita, il sentore di fumarola si è sbiadito con l’alito salmastro del mare in un afrore di concimi naturali / su quali fiori si poseranno le api del signore del miele, sul basilico e sul rosmarino, i timi e le mente, e che percorso casuale seguono, ogni mattina, le pecore che scampanellano blandamente di qua e di là, intruppate da cani lerci?   

Abbandona stracco la poltiglia del suo giaciglio, i talloni sul pavimento fanno vibrare sensibilmente le corde della chitarra poggiata in un angolo di passaggio, avverte tutta la spossatezza atlantica del suo snodo vertebrale, della sua gabbia toracica, neppure dopo l’avvinghiarsi nei sensi, l’abbandono liquefatto, la bonaccia di endorfine, al cospetto dei led della specchiera vintage impietosamente il suo ritratto sfiorito, la carta vetrata del mento, le pozze paludose delle orbite come d’autunno, passaggi d’aratro sulla fronte come se lo svolazzo simmetrico dei corvi avesse beccato via furtivamente ogni spargimento rituale di semi, e l’aurora con la sua emorragia di cielo avesse sorpreso un terreno spoglio e assetato di quiete, o di niente – poggia le braccia lucide sul bordo del lavandino e si sforza di trovare riflesso quel ragazzo con le espressioni da grande, quell’uomo con gli occhi da bambino: trova invece dall’altra parte di quel vetro la maschera in cui ogni età fatalmente coincide, e allora si sottrae di scatto, con uno sfiato avvilito, gira lo sguardo ben oltre lo scavo della clavicola, il bagliore cieco, la fessura del giorno, le ceramiche azzurrate, la solitudine sfibrata dell’accappatoio a parete, lo smeriglio della doccia / nella sua mente inizia a crepitare il vinile di Silvestri come da un grammofono distorto, e ripete a se stesso (ma in realtà a quello specchio BUGIARDO in terza persona):
Mente.
Mente.
Mente…”

Giuseppe Cusumano

Giuseppe Cusumano è nato nel 1968 in un paesino del Polesine che oggi non esiste più, da genitori etnei di Militello in Val di Catania. Vive a Ragusa da oltre 40 anni e scrive quasi da sempre, da mancino corretto: ama la musica, nuota e si diletta di fotografia, ha praticato calcio e arti marziali, si nutre di libri, di natura e di umanità.
Risulta curioso, poco ortodosso, distrattamente attento, dotato di ottima memoria - e anche per questo dicono soffra di ‘retrotopia’.
Di professione Malaùssene, da nove anni coordina un Progetto di volontariato (nato in Ambasciata e radicato presso la missione di Kitanewa) per la costruzione di scuole di ogni ordine e grado nella regione di Iringa, in Tanzania, e continua a farsi correggere i compiti dalla sua prof di lettere.
Ha pubblicato diversi racconti e articoli, un diario di viaggio africano (Quaderni tanzani, OperaIncerta Editore), un romanzo (La terza banca, La Zisa Ed., recensito su Repubblica), e incredibilmente una raccolta di poesie (Minimalia, Libro Italiano World Ed.).
Saltuariamente ha scritto su un blog, ma non è cosa sua.
In compenso, a breve pubblicherà il suo nuovo romanzo, ambientato in Africa, dal titolo Agli elefanti invece sì, editore cercasi.

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