Trama
Il film racconta gli ultimi sette giorni di vita di Stefano Cucchi, un geometra di 31 anni (già stato in comunità per dipendenza da droga) che, una sera d’ottobre del 2009, viene fermato dai carabinieri mentre fuma una sigaretta in macchina con un amico. I due vengono perquisiti e Stefano viene trovato in possesso di alcune dosi di hashish e cocaina e una pasticca di un medicinale per l'epilessia, di cui soffre. Portato alla stazione dei Carabinieri e interrogato dal comandante, dopo la perquisizione dell’abitazione dei genitori, con i quali vive saltuariamente, viene disposta la misura cautelare in carcere. Prima del suo trasferimento, nella stessa Stazione dei Carabinieri Casilina, viene selvaggiamente picchiato da due carabinieri che lo avevano in custodia. Dopo essere stato condotto nel carcere di Tor Sapienza, in cui passa la notte prima del processo, si sente male, ma rifiuta le cure del 118 che era stato allertato. La mattina seguente, uno dei secondini che nota i suoi evidenti ematomi al volto, giustificati da una caduta dalle scale, vuole aiutarlo ma, anche in questo caso, rifiuta i soccorsi. Durante il processo fatica a parlare e si dichiara innocente, per quanto riguarda l’accusa di spaccio, ma colpevole per la detenzione di droga ad uso personale. Il giudice stabilisce la custodia cautelare nel carcere di Regina Coeli. Viste le sue condizioni (difficoltà a parlare, a camminare, ematomi sul volto molto evidenti) viene visitato in ospedale ed emergono lesioni, fratture ed ematomi diffusi su tutto il corpo. Ritornato in carcere, denuncia ai poliziotti di essere stato pestato dai carabinieri. Inizia un calvario. Viene sottoposto a visite e rinchiuso nell’infermeria dell’ospedale. Chiede ripetutamente di incontrare il suo avvocato, però non gli viene mai concesso il permesso di vederlo. Morirà solo, nel letto dell’infermeria, senza che alla sua famiglia sia data la possibilità di vederlo in vita. I familiari verranno a conoscenza delle sue condizioni solo dopo la morte, alla vista del cadavere, di cui l’autorità giudiziaria dispone l’autopsia.
Commento
Il sistema penale italiano, rispetto a quello di altri Paesi europei e di quello statunitense, può definirsi, almeno teoricamente, uno dei più rispettosi della dignità umana poiché si fonda sul principio di proporzionalità della pena ed è tendente alla rieducazione del reo e al suo reinserimento nel contesto sociale (Art. 27, comma 2, Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” – art. 13, comma 3, Costituzione: “È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni della libertà”).
Nel caso in esame, la contestazione sollevata non riguarda la pena a cui Stefano Cucchi è stato sottoposto, bensì il trattamento ricevuto da parte delle forze dell’ordine, le stesse che avrebbero dovuto applicare i principi costituzionali previsti. Forti del proprio potere, i carabinieri che hanno tratto in arresto Cucchi, hanno esercitato un abuso dei mezzi di correzione verso la persona sottoposta alla loro autorità, a loro affidata per ragione di vigilanza o custodia (art. 571 c.p.).
Il film è riuscito a narrare la vicenda di Stefano senza usare la medesima violenza (fisica e verbale) che gli è stata inferta. Non è presente alcuna scena cruenta ed esplicita, bensì tutto è lasciato alla libera deduzione di chi guarda. Deduzione che non dà adito a dubbi interpretativi.
Fra le tante, tutte di forte impatto emotivo, la scena che funge da linea di demarcazione tra ciò che è lecito e ciò che non lo è (secondo l’ordinamento giuridico che si è dato lo Stato italiano) si ha quando, dopo la convalida del fermo, Cucchi viene scortato da tre carabinieri lungo alcuni corridoi della caserma. In un silenzio interrotto solo dal rumore dei passi, Stefano Cucchi viene condotto in manette finché giunge davanti ad una porta chiusa. Uno dei carabinieri apre con la chiave ed entra e Cucchi è costretto ad entrare, con la forza, dagli altri due. Richiusa la porta alle loro spalle, la scena inquadra, per alcuni secondi, il corridoio vuoto e, subito dopo, è inquadrato, nella penombra della notte, il volto tumefatto di Stefano seduto nell’auto che lo conduce presso il carcere che lo ospiterà prima del processo.
Dalla visione globale del film emerge un comportamento remissivo, quasi rassegnato del protagonista. L’aver subito tale aggressione ha generato in lui una sfiducia nella giustizia e soprattutto verso coloro che dovrebbero far applicare le leggi. Questo lo ha indotto a non rivelare la verità dei fatti, a non farsi curare, per il timore di subire altre vessazioni. Solo dopo essersi liberato delle figure macabre, ha trovato il coraggio di denunciare, ma mai in modo efficace. Gli aggressori, invece, hanno assunto il ruolo di giustizieri, certi di riuscire a farla franca. Hanno creduto di poter castigare con le stesse modalità che si usavano al tempo delle punizioni corporali, che, essendo pubbliche, si ponevano l’obiettivo di fungere da deterrente per chi le subiva e chi le vedeva. La grande, abissale differenza, è che le pene corporali sono avulse dal nostro sistema giudiziario e, ancor di più, ai castigatori improvvisati non era affidato il compito di applicare le pene, quanto a gestire la situazione in atto, nell’attesa che si esprimesse un giudice. E di questo, ne erano consapevoli, tanto che l’arbitrio commesso hanno sperato di occultarlo attraverso l’autorità riconosciutagli dal loro distintivo.
Tanti gli interrogativi che potrebbero porsi sul caso Cucchi (Perché è stato selvaggiamente picchiato? Perché ha subito la custodia cautelare in carcere per la tipologia di reato ascritto? Perché gli è stato impedito di parlare con il suo avvocato? Perché la famiglia non ha potuto vederlo, nonostante i solleciti, durante il suo ricovero in infermeria?). Tante le persone che lo hanno visto, sfigurato e dolorante, e non sono intervenute (Perché nessuno ha segnalato la questione pur nutrendo forti dubbi sull’accidentalità delle sue lesioni?).
Questo ci fa meditare sul senso di punizione da infliggere e, soprattutto, sul senso di onnipotenza di chi crede che colpire un detenuto sia quasi un vanto, un modo per ottenere plauso dalla società: chi ha sbagliato, merita di essere punito da chiunque, in quel momento, possa ergersi a censore. Ma è davvero migliore colui che esercita una giustizia fai da te?
Antonella Galuppi vive a Santa Croce Camerina (RG). Laureata in Giurisprudenza, con idoneità all’esercizio dell’attività forense, è specializzata in Criminologia e Diritto minorile. Giornalista pubblicista, ha pubblicato due raccolte poetiche (“Sciarade”, Itinerarium editrice, Modica 2003, e “L’antinomia”, Armando Siciliano editore, Messina 2016), un libro illustrato per bambini (“Spillo & Karim”, Alberti editore, Arezzo 2003). Nel 2021 ha pubblicato la raccolta di racconti “Vite a stralci”, e nel 2023 il romanzo "MareDentro", entrambi per OperaIncerta editore, Ragusa). Un suo mini-racconto, “La mascherina”, è stato inserito nell’E-book edito dalla Rai, edizione 2020/2021. Da anni opera nel settore della cultura ottenendo diversi riconoscimenti, fra cui il Premio Livatino Saetta Costa, a Catania nel 2017, per l’impegno sociale nella cultura, e il Premio Sicilia Federico II, a Modica nel 2021, per la poesia.
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