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Salvatore La Tona 14 novembre 2023


Ho corso, di questo mi ricordo, è un ricordo fisico che è dentro i muscoli e le articolazioni, fissato in tutto ciò che mi spinge e mi tiene insieme, gambe e testa che vanno avanti a fare strada. La cadenza e l’impatto del passo a contatto con la superficie, terra, asfalto, erba, i metri e i chilometri che scorrono in mezzo a strade di tutti i tipi. Ricordo questo e che il corpo, tra l’inizio e la fine, registra nei tessuti la distanza mentre la corsa si allunga nel contachilometri della memoria e continua oltre la segnaletica stradale, al di là della quale nessuna geolocalizzazione può più controllare l’orientamento. Forza motrice di un’unità organica in movimento, con la pompa del cuore al centro e il respiro a decidere il cambiamento di ritmo, proiettata in linea retta ad assorbire e buttar fuori aria. In entrata e in uscita respirare tutta quella che si può, le gambe che proseguono in modo meccanico, gli occhi che fissano lontano. Bisogna tenere a mente la rotta, la direzione in mezzo alla distesa perché si deve sempre poter ritornare per ricominciare. Questo ricordo d’aver fatto, e molto presto, non potendo contare che sul poco dal quale partivo, ho puntato sull’unica unità di misura, la più antica e sicura, a mia disposizione per situare lontano e reggere lo sguardo: il passo. Ho cominciato a 13 anni. Luogo scuola media statale Alessandro Manzoni, il neo professore d’educazione fisica, Ventura Gesualdo, che, cronometro in mano, ci chiama in cortile e ordina: cinque giri attorno alla scuola. Pronti, partenza e via. Al quinto mi blocca e mi fa: fermati, primo, ti seleziono. Nome e cognome. Direzione giochi della gioventù. Cerda, Cefalù. Gare vinte due, alla terza, per le qualificazioni nazionali di Formia, l’autobus non si presenta. Ventura Gesualdo bestemmia come un turco, io me ne frego, tanto Formia non so dov’è, sono contento, non ci sarà scuola, e me ne vado a correre lo stesso, che fuori paese ce ne sono di strade. Me la invento in salita la gara, che vinco da solo, con mio padre che mi cerca dappertutto e che, vista la vittoria, mi aspetta davanti alla porta di casa per farmi festa a modo suo. Sono sbandato fuori strada così, mentre alcuni miei compagni sbandavano nel contrabbando o nel lavoro in nero, dove Rosario, il mio compagno di banco, c’è rimasto fulminato. Io, senza saperlo, tentavo la fuga ogni volta più lontano da qualsiasi traffico, dagli stop e i divieti delle strade buone del catechismo e da quelle cattive o nere di catrame piene di automobili, camion, autotreni, lambrette, vespe, motorini, trattori, motocoltivatori, pescivendoli, fruttivendoli. Io redivivo-resuscitato correvo fuori dai binari delle strade segnate. Nato col nome ed il cognome di uno morto schiantato in un incidente stradale, il mio destino di fuga, mazzo di fiori poggiato, scaraventato ad una curva e vocato al divieto. Niente macchine, motori o motorini nella mia famiglia, il mondo motorizzato, salvo necessità, mi è stato sin da subito vietato. Era una questione di garanzia perché mia zia me lo diceva spesso questa cosa: «Tu ti devi garantire». Ed io che ne sapevo, venendo al mondo, che mi chiamavo uguale uguale a uno che dal mondo se n’era andato proprio prima che io aprissi la porta d’entrata? Me l’hanno detto a otto anni, madre, padre, nonni, zii, cugini, dopo che io l’avevo letto, il giorno dei morti, su una lastra. «Devi essere contento di portare questo nome» e me lo ripetevano tutti in famiglia, proprio contenti come quando si dice a uno che arriva da un altro pianeta o che è atterrato da un altro mondo, così mi diceva mia nonna: «voglio bene a tutti i nipoti ma tu sei particolare». E io non capivo se questa particolarità consisteva nel fatto d’essere ogni due di novembre tipo il pupo di zucchero della famiglia o nel fatto di essere un marziano tipo Ufo robot. Fatto sta che senza astronave, biciletta, vespa o motorino non mi restavano che i piedi per non rimanere come un pupo posato, anche se di zucchero, e per acchiappare, se possibile, la mia navicella. Correre è stata una questione di necessità, intanto perché costa niente correre, solo le scarpe consumate e le urla di mio padre che, per arrivare a fine mese, tra nettezza urbana e macello faceva il maratoneta a modo suo. Lui che della nettezza non aveva mai il profumo e che nella sua maratona quotidiana doveva guardare negli occhi il vitello o la vacca o il cavallo o la scrofa, incatenati e immobilizzati, e tirargli in mezzo con la pistola a punta di ferro, detta a proiettile captivo, e che un giorno, forse per aver fatto il giro troppo largo non ce l’ha fatta a guardare e tirare in mezzo a quelli che quel giorno preciso gli parevano proprio occhi di bambini ed ha dovuto abbandonare la gara, pure se il giorno dopo l’ha ripresa lo stesso per arrivare alla linea d’arrivo di fine mese. Il mio amico Luigi Scorsone me la spiegava così la maratona, che uno corre sempre come gli indiani, i cow-boy, i messicani e i gringo, dei film western o quando è inseguito da qualcosa o qualcuno o per inseguire qualcosa o qualcuno. E c’aveva azzeccato proprio Luigi, perché mio padre li guardava tutti i film western e io con lui e mia madre con noi perché avevamo una sola televisione che si accendeva solo la sera per via della bolletta «che sennò poi diventa troppo salata» ripeteva mia madre. Questo mi diceva Luigi, l’amico col chiodo nero-pelle addosso che se n’era scappato per alcuni mesi a Milano, soprannominato il ragioniere per via del mangiacassette che c’aveva nella testa o «della memoria fotografica», come diceva la professoressa d’italiano Anna Ciuro, che registrava preciso preciso frasi intere da Tex Willer, dai western e da tutto quello che ascoltava o gli passava davanti ai raggi x degli occhi. Fu lui a spiegarmi che pure noi siamo a Sud eppure abbastanza ispanici come i messicani del Sud America di Giù la testa, che c’abbiamo come quelli pure il caldo, il sudore, i cavalli, i muli, i regolamenti di conti, i miracoli e i nomi dei santi addosso, l’aridità e le disgrazie e perfino le facce dei campesinos tipo Pancho Villa. Mi spiega tutto Luigi, Emiliano Zapata, Bolivar, Sendero Luminoso, Pancho Villa stesso, Salvador Allende, Ernesto detto il Che, Sandino, e anche la storia del contadino Chico Mendes, tutti che si allenavano a fare la rivoluzione, così la chiama lui tutta questa gente in movimento che c’aveva in testa, oltre al troppo sole, di cambiare tutti i sensi unici delle strade latine dell’America che avevano la tabella divieto della dittatura in tutte le vie e per dimostrarmi che quello che diceva era proprio vero mi faceva vedere le videocassette della storia di questi qua con il videoregistratore di Milano in un garage dove proiettava il cineforum clandestino dei documentari a quelli come me, nati scuri di sole, che erano a Sud senza saperlo. E quando li vedevo questi sudamericani mi rendevo conto che avevano per davvero le stesse facce scure e bruciate dal sole preso all’aria aperta e genuina, di quelle di mio zio Calogero e di mio zio Nino e di quegli altri che come loro vedevo al mio paese. Tutti braccianti o muratori che al sole, se potevano, gli sparavano, perché dovevano starci con le corna sotto da quando spuntava a quando calava. E poi Luigi mi fa vedere il film su un frate che ha la stessa faccia del western nel film Per un pugno di dollari e in Per qualche dollaro in più, Gian Maria Volonté che si chiama Giordano Bruno, pure lui bruciato, ma dal fuoco vero però, per l’eresia che aveva dentro il cervello. E io registro quello che dice il frate Giordano Bruno proprio come fa Luigi col mangiacassette che c’ha in testa: «Posso chiedere di che colore è il latte? Bianco. Allora quando tu pensi al latte pensi bianco. E chi lo fa questo latte? La vacca. E che cosa mangia questa vacca? Erba, prato, pioggia, nuvole, cielo, astri, universo, Dio. Se volete voi: Universo, astri, cielo, nuvole, pioggia, prato, erba, vacca, latte. Un’immagine viva di Dio. Se volete voi». Registro e mi pare di registrare la mia corsa, tutta con le strade, il cielo, gli alberi e le vacche dentro, le pecore, gli asini, le capre, i cani, l’erba, i prati, come se corressi assieme al frate eretico Giordano Bruno, come se correre fosse magiare il latte bianco della capra di mio nonno, della mucca di mio zio Vicé, l’erba, il prato, la pioggia, le nuvole, il cielo, gli astri, l’universo. Tutte cose che non costano niente, come la corsa, che fanno il giro e corrono dalla mattina alla sera con gli indiani, i cow-boy, i messicani, i gringo, con Pancho Villa, Emiliano Zapata, Bolivar, Sendero Luminoso, Salvador Allende, Ernesto detto il Che, Sandino, Chico Mendes, mio zio Cologero, mio zio Nino e tutti quelli come loro che c’hanno pure il sole che tutto il giorno gli gira intorno alla testa, tutte cose che corrono pure di notte che uno manco lo sa che c’è questa corsa, e penso che tutto, animali e spazio e cielo, che vedevo mentre correvo, ora sapevo di avercele dentro perché le avevo registrate come il videoregistratore del cineforum clandestino di Luigi, «messo a fuoco» diceva la professoressa Anna Ciuro, e le feci pure il tema libero su tutta questa corsa «messa a fuoco» però fatta su un foglio di carta con la penna. La prima volta libera proprio come il tema e come quella vera all’aria aperta, e lei, la professoressa, lo lesse in classe che proprio mi fece arrabbiare questa cosa e vergognare, e alla fine disse queste parole degli antichi che esistevano prima di quelle del frate Bruno: «Mente sana in corpo sano». Disse così la professoressa Ciuro e io metto a fuoco sul nastro. Ero sano nel mio corpo e quindi pure nella mia testa con tutto l’universo che c’avevo dentro, videoregistratore compreso. Perché come dice Spinoza, un altro che per nome poteva essere come quelli della rivoluzione del Sudamerica,  «la mente è l’idea del proprio corpo», continua la professoressa, «la mente vede quello che il corpo tocca e più il corpo tocca e conosce più la mente s’allarga», e per tenere assieme tutto questo allargamento che entra dentro la testa, per non perdersi, bisogna metterci in mezzo un bel po’ di strade che sanno dove portano, che uno non si perde manco se spengono la luce, come se c’hai una bussola in testa, la mente. Il vantaggio di questa cosa è che una volta che accendi il videoregistratore non puoi spegnerlo neanche se tiri la spina. Quello rimane sempre acceso, a gratis, senza bolletta, con la televisione e tutti i western, le corse, i frati, le mucche, l’universo, le rivoluzioni, i controsensi, le facce bruciate e non.  Ma questo a mia madre non l’ho mai detto.

Foto da Pixabay

Salvatore La Tona

Salvatore La Tona nasce in Sicilia nel 1975. Nel 1997 lascia l'Italia per stabilirsi in Francia dove dal 1997 al 2000, sans-papiers, lavora come operaio. Nel 2001 riprende gli studi universitari fino al dottorato di ricerca. Durante la stesura della sua tesi, Luoghi, Memoria e Professione nella Poesia di Cesare Pavese, ha pubblicato articoli e partecipato a conferenze e convegni. Collabora con diversi musicisti, poeti, registi, attori, collettivi, operai, contadini. Ha scritto testi e poesie “d’inchiesta” per molti documentari e cine-reading oltre che letture-concerto nell'ambito di festival e incontri vari. Dal 2018 organizza il Festival del Torto, nella valle del Torto, in Sicilia, e dal 2023, a Strasburgo, il Festival MéditerRhin.

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