Sono stanco, Capo. Soprattutto del male che gli uomini fanno agli altri uomini. Sono stanco dai tempi del Partizan di Fuenlabrada, quello che vinse l’Eurolega nel 1992. La prima delle nove vinte da Zelimir Obradović, la prima e forse la più bella. Ma io, già allora, delle bugie ero stanco. Stanco della gente che si riempiva la bocca con il gemellaggio e con me che dovevo fare da ponte tra i popoli e tutte quelle belle cose. Il Partizan nel ’92 a Belgrado non poteva giocarci. Sui Balcani nel '92 cadevano le bombe e una squadra che andava a giocare a pallacanestro in un altro paese sembrava il modo più normale di leccare le ferite. Perché a Fuenlabrada le bombe non cadevano. Lì io potevo ancora essere me stesso. Lì, nel sole della penisola iberica, io potevo ancora mentire al tempo. Ma il tempo è una ruota che gira e alla fine le cose ritornano. Soprattutto le bugie. La casa del Maccabi Tel Aviv oggi si è spostata a Belgrado, non seve dire perché. Solidarietà. Aiuto. Una mano per alzare chi è caduto. Perché bisogna continuare a giocare. E così ho sempre fatto. Ho continuato, ma adesso sono stanco. Sono lo sport e sono stanco di essere una bugia.
Sono stanco di portarmi addosso i dolori del mondo. Smith e Carlos e il guanto più famoso della storia del monte Olimpo sbattuto in faccia all’ingiustizia. Muhammad Ali e i vietcong che a lui nero non lo avevano mai chiamato e le coscienze che intanto si smuovevano da sotto, dalle viscere. Colin Kaepernick in ginocchio. I Can’t Breathe e Say Her Name e noi siamo la NBA e la WNBA e dovremmo sempre giocare però no, stasera no. Perché stasera il mondo si è fatto male. Io mi sono fatto male. Da George Floyd e Breonna Taylor fino a tutti gli ultimi della terra, io ci ho sempre provato a prendermi un po’ del loro dolore.
E non serve andare sui campi più famosi e negli stadi più antichi del pianeta. Io il dolore del mondo lo prendo ovunque. Il mondo a mele lancia in faccia le sue verità. Dalle piazze e per le strade, dove le porte sono i lampioni e le linee del campo i marciapiedi e le vite di quelli che giocano sono rovinate come un pallone sgonfio. Sulle piste di atletica che magari piste di atletica neanche lo sono, ma un salto è un salto, anche se non hai un materasso dove atterrare. Un salto non sa cosa siano le bugie.
Una partita di basket è una partita di basket, chi se ne frega dove si gioca, l’importante è andare avanti. L’importante è che io tiri su forte quel dolore e me lo prenda tutto, che botta cazzo, come Uma Thurman in Pulp Fiction. Una partita di calcio è una partita di calcio, non importa che lo Shaktar Donetsk a Donetsk non possa giocarci più. Non importa la bugia colossale di una squadra che ha i mezzi per nascondersi dalla guerra. Oppure sì?
Importa per quelli che non possono andare a giocare da un’altra parte. Importa per quelli che non possono giocare più, perché si sono fatti molto più male di me. O perché sul loro campo cadono le bombe. Importa per quelli che possono giocare e devono giocare per forza e per correre dietro a un mondo di cui, Capo, io davvero non ne posso più.
Io vedo i miei piloti che svengono, vomitano, chiedono aiuto. Fa niente, mi dite, corriamo lo stesso, che in Qatar ci sono i soldi. Quelli sputano la vita sull’asfalto e c’è la mia mano a tener loro la testa, a dirgli che ne vale la pena perché in fondo a loro piace guidare e devono pensare solo a quello.
Quegli atleti russi vivevano per me. Volevano giocare e basta, non volevano fare la guerra, cosa c’entravano loro con la guerra. Mi dite che fa bello non farli gareggiare e allora sono io a dovermi prendere cura di loro. Sono io che devo tenermi il loro dolore. Sono io che devo mentire e dire che tanto alla fine metterò tutto a posto.
Ci provo a dare speranza. Ci provo a travestirmi ancora da favola. Metto gli attaccanti in porta e gli faccio fare le parate decisive a un minuto dalla fine perché sono questo. Una favola. Una storia impossibile da raccontare a un ragazzino perché si addormenti sorridendo. A un ragazzino, Capo, dovresti raccontare storie di eroi e di persone. Di vittorie e di sconfitte s oriente e a occidente. Storie di mondi lontani. Storie mondiali. Storie di tutto, ma non di bugie.
Mondiali di calcio. Erano musica una volta, queste parole. Nel 2030 si spaccheranno in tre continenti diversi. Sud America, Africa, Europa. Il centenario, partiamo da dove tutto è iniziato. Partiamo dal Sud America e poi ci spostiamo, che devono vederci tutti. Siamo inclusivi, amiamo tute le nazioni, guardateci come siamo belli e ricchi e puliti. Bugie, ancora bugie. Viaggi intercontinentali, traversate dell’oceano, jet leg, eco sostenibilità che vola fuori dai finestrini dei voli charter. Della salute mentale e fisica di gioca, chi se ne frega. Della salute del pianeta e degli esseri umani normali, ancora meno. E io sono stanco. Stanco di prendermi tutto il dolore che è come avere pezzi di vetro conficcati in testa. Stanco di essere usato come una bandiera colorata per nascondere il buio dei soldi e del potere. Io ho paura del buio, Capo. Ti prometto, ti giuro che il dolore lo prenderò ancora e ancora. Ma ti prego non mettermi quella cosa in testa. Non trasformarmi in qualcosa che non sono. Non farmi più dire bugie. Loro vogliono solo giocare. Tutti vogliono solo giocare.
:Foto di StockSnap, Pixabay
Lia Rebecca Valerio nasce a Portogruaro nel 1987. Inizia a giocare a pallacanestro nella squadra del suo paese, Concordia Sagittaria. Dopo i campionati giovanili in maglia Pallacanestro Concordia e Reyer Venezia e alcune stagioni passate in giro per l’Italia, veste per la prima volta i colori della Virtus Eirene Ragusa nel 2011. Con la Passalacqua gioca fino al 2017/18, ultima stagione prima del ritiro. Nelle stagioni successive collabora con la Virtus Eirene a livello giovanile e senior, ricoprendo incarichi in ambito tecnico e dirigenziale. Ha pubblicato Storie a spicchi una raccolta di racconti di sport.
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