Era quello il punto perfetto della casa, quella zona in origine soltanto di passaggio tra il giorno e la notte, ed ora ricavato tra una parete ellittica di vetrocamera e per il resto legno antico. Legno il pavimento, legno lo scrittoio con la sua sedia, legno la parete attrezzata col disordine di libri e ricordi di viaggio, legno le cornici dei quadri, legno l’espositore a vetrinetta con le dediche, su volumi, dischi, foto, copertine. Qua e là, oggetti di altri secoli, il binocolo da teatro della bisnonna, la Olivetti Lettera del nonno paterno, un magnetofono con un viluppo irredimibile di nastri sbiaditi, il giradischi a manovella con i suoi vinili metallici, una Leica che fu, i cinque codici del 1865, persino un azulejos del Settecento acquistato da un antiquario di Lisboa, al Bairro. E quella poltrona di velluto rosso, sontuosamente addossata ad un angolo, accanto al termosifone, dentro la quale amava annidarsi, consegnarsi al silente chiaroscuro, astrarsi in un tepore vago, quella poltrona che era stata d’una zia mai conosciuta se non in qualche bianco e nero sbiadito.
Nelle giornate del maestrale, o di furente libeccio, quelle in cui torme di spifferi rauchi aggrediscono gli infissi, preferiva accucciarsi in quel nascondiglio senza tempo e senza dire una parola, chiudendo con un respiro profondo il mondo con la sua penombra cobalto dietro quella soglia, con la voglia d’un qualcosa di caldo da sorseggiare, o di un distillato profumato, un libro sfilato via da un ripiano e tenuto sulla gamba accavallata con una matita tra le dita per catturarne parole, per disegnare metafore e scoprire chiasmi. Ecco, ogni volta che gli sembrava di aver scoperto un chiasmo era costretto a ricorrere allo spaginato fogliame di grammatica, reperito da suo fratello già sgualcito e in situazioni poco chiare ai tempi del liceo: in compenso era capace di interpretare una iscrizione bustrofedica in un amen e mezzo. I suoi ponderosi testi di diritto e di economia oramai occupavano la parte superiore degli scaffali, quella che presumibilmente concedeva maggiore ozio alla polvere: ma non c’era un solo metro quadro di casa che non rivelasse il suo amore per l’archeologia, in particolare i cocci e i frammenti disseminati su mensole e ripiani, scaglie di vasellame disposte come con casualità coreografica su mobili minimali, un collo d’anfora sottratta dalle secche di Circe e adesso dentro a una nicchia a led, e un plateau di monete pescate nelle acque torbide di Gela in bella mostra accanto allo scrittoio.
A terra, sul parquet, la piccola bacheca appoggiata per una mera casualità – anzi, per una temporanea necessità – allo stipite della porta accanto alla base della parete attrezzata, e in quell’angolo poi rimasta: l’aveva acquistata in una serata di meltemi a Çanakkale, ospite del suo amico Ömer, mentre cercavano insieme scampo alla polvere di un’intera giornata al parco archeologico di Izmir, laddove aveva raccolto da terra, lungo un sentiero non battuto, una strana pietra, levigata su un solo lato: gli unici occhi ad accorgersi di quel suo stupore infantile erano stati quelli di una donna mediterranea, non più giovane, ma giovane per la sua età. L’aveva notata dentro al museo, e di fronte alla statua di Artemide gli erano sembravano due immagini riflesse dentro uno stesso surreale specchio, la scultura trasposta in corpo umano e la carne sublimata in fattezze di marmo / la bellezza dell’arte e la perfezione della natura. Se ne era rimasto così, defilato come sempre in un suo angolo, e quando la donna si era voltata proprio nella sua direzione, in quella sua penombra di chiarore artificiale, lei gli aveva sorriso. Chissà quanti istanti era durato quel sorriso, quell’intimità di un vezzo disvelato, non per vanità, ma per l’estemporaneità d’un incantamento.
Non appena a casa, aveva tirato quella pietra segreta fuori dal viluppo di confezioni e di souvenir e di biancheria sporca, e aveva iniziato a sfiorare la sua superficie levigata ma incrostata dal tempo impietoso e dalla salsedine egea, e le sue dita avevano percepito come delle incisioni, forse lettere o magari incuria oppure soltanto le tracce dei secoli. Aveva usato dei solventi e dei pennelli - soprattutto la sera, quella dissolvenza del giorno in cui i pensieri tendono a raggrumarsi e i ricordi a divenire nostalgia. Persino l’autunno non tardò ad arrivare, e lo sorprese dentro alla solita poltrona con un libro di Salvatore Quasimodo, con le sue traduzioni dei lirici greci, prima che il pennello più ostinato scrostasse via l’ultimo residuo d’attesa in una domenica di inizi novembre: le sue dita da quel momento erano libere di scivolare lungo quelle indistinte incisioni, percorrendole anche ad occhi chiusi, e altrettanto libere di immaginare due lambda, una iota e una ‘khi’ - “λλιχ” (llikh).
Ma sì, era senz’altro così.
E poi gli capitò di soffermarsi su un frammento di Alceo, quello dedicato a Saffo la divina, coronata di viole, decima musa, “mellikhomeide Sapfoi”, che Quasimodo aveva tradotto “dolceridente Saffo” / lui invece se ne era rimasto lì, come incredulo, a vergare non senza pudore “sorriso di miele Saffo” in punta di matita, impercettibilmente a margine, traducendo alla lettera l’immagine amata dal poeta e il sorriso, indimenticabile, di quell’attimo rubato a Izmir – non restava quasi più memoria dei tratti di quel viso mediterraneo: solo l’essenza di quella inattesa confidenza.
Giuseppe Cusumano è nato nel 1968 in un paesino del Polesine che oggi non esiste più, da genitori etnei di Militello in Val di Catania. Vive a Ragusa da oltre 40 anni e scrive quasi da sempre, da mancino corretto: ama la musica, nuota e si diletta di fotografia, ha praticato calcio e arti marziali, si nutre di libri, di natura e di umanità.
Risulta curioso, poco ortodosso, distrattamente attento, dotato di ottima memoria - e anche per questo dicono soffra di ‘retrotopia’.
Di professione Malaùssene, da nove anni coordina un Progetto di volontariato (nato in Ambasciata e radicato presso la missione di Kitanewa) per la costruzione di scuole di ogni ordine e grado nella regione di Iringa, in Tanzania, e continua a farsi correggere i compiti dalla sua prof di lettere.
Ha pubblicato diversi racconti e articoli, un diario di viaggio africano (Quaderni tanzani, OperaIncerta Editore), un romanzo (La terza banca, La Zisa Ed., recensito su Repubblica), e incredibilmente una raccolta di poesie (Minimalia, Libro Italiano World Ed.).
Saltuariamente ha scritto su un blog, ma non è cosa sua.
In compenso, a breve pubblicherà il suo nuovo romanzo, ambientato in Africa, dal titolo Agli elefanti invece sì, editore cercasi.
© Operaincerta. All Rights Reserved. Designed by HTML Codex