Il sorriso, nell’immaginario collettivo, corrisponde spesso all’atto che evoca felicità o all’atto che rivela questo stato. Il termine sorriso, ripreso dai diversi dizionari della lingua italiana è delineato del resto in tal senso e quindi come “aspetto gaio, ridente, rasserenante”, “apparenza piacevole, spec. del paesaggio, di elementi naturali, di una situazione, che trasmette letizia e serenità”, ecc. Prendendo le mosse dall’analisi filosofica attraverso la quale il tema viene trattato da Salvatore Natoli, a lungo professore di Filosofia teoretica presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, l’Università Ca’ Foscari di Venezia e l’Università degli Studi di Milano Statale, ci si addentrerà nell’oggetto di questo articolo, il sorriso, partendo da quella parte di esso che per i più indica precisamente lo stato di felicità degli uomini. Presente nel dibattito filosofico e culturale contemporaneo, Natoli ha rivolto la sua attenzione al senso del divino nell’epoca della tecnica e alla possibilità di un’etica che sappia confrontarsi con il rapporto tra felicità e virtù e con gli aspetti della corporeità e del sacro, sottovalutati dal razionalismo classico. “Gli uomini vogliono essere felici e si sforzano di raggiungere la felicità”, dice Natoli. Quella della felicità, è stato affermato, è un’esperienza originaria della vita, insita nel modo di essere nel mondo che è proprio dell’uomo. Però, quando ci si chiede “che cosa è la felicità?”, le risposte non sono mai univoche, poiché è il concetto stesso di “felicità” a risultare sfuggente, problematico, difficile da definire: così le risposte variano a seconda delle persone, delle situazioni, delle concezioni della vita, tanto che si è potuto dire che ogni individuo ha la sua idea di felicità” . Partiremo quindi da La ricerca della felicità e dall’ excursus di Natoli sull’etimologia della parola e sulla concezione di questa che nel tempo si è venuta a delineare, per passare, successivamente, ad alcune considerazioni o ragionamenti più ampi, riguardanti la questione in oggetto. La parola sorriso evoca “l’atto del sorridere” o il modo di contrarre le labbra che indica un sentimento di contentezza o di soddisfazione” o ancora “in senso figurato e per estensione ciò che conduce a sollievo il cuore”. Del resto “l’etimologia del termine greco per “felicità”, eudaimonía, rimanda a una condizione di vita “buona” dovuta a un daímon, un “demone”, uno spirito benefico, un “custode” che protegge l’individuo, altrimenti in balia della sorte, la tyche, per i greci divinità terribile e incontrollabile che favorisce alcuni e lascia altri esposti ai mali della vita. Esiodo, ne Le opere e i giorni, parla appunto di un “custode degli uomini mortali”, di uno spirito benefico che protegge dai mali il “fortunato” che si trova a godere del favore degli dèi. Ma la “buona fortuna” (e l’“assistenza” del “buon demone”) non è di per sé garanzia di stabile felicità: a dirlo, nel V secolo a.C., sono i grandi poeti tragici, Eschilo, Sofocle ed Euripide, i quali hanno rappresentato e descritto una condizione umana caratterizzata dalla precarietà, dalla fragilità e provvisorietà di ogni situazione felice. Con la filosofia socratica-platonica ed inseguito con quella aristotelica la felicità e la fortuna vengono dissociate e la parola felicità viene legata a quella di virtù e quindi determinata dalla “capacità dell’individuo di svincolarsi dalle maglie della necessità e del destino e di affermare liberamente la sua aspirazione al “bene”. Ciò significa che tale filosofia crede possibile il fatto che gli uomini possono sottrarsi all’imprevedibilità della sorte diventando custodi di sé stessi attraverso la costruzione di una vita ispirata a ideali di moderazione o/e contenimento razionale dei desideri e delle passioni: “si è felici solo se si agisce bene, se operando attraverso azioni e intenzioni virtuose, si merita la felicità”. In età arcaica la virtù (areté in greco) esprime la capacità di un individuo – un guerriero, un “eroe” – di eccellere nella condotta e perciò nella vita. La sanzione della virtù è data dall’onore, cioè dal riconoscimento pubblico della sua virtù. Felicità è lo stato che deriva dal buon esito della condotta. Essa si identifica, dunque, col “successo” dell’eroe nella vita (campo di battaglia e/o assemblea dei capi). Tutto ciò che attenta all’onore diventa – allo stesso tempo – minaccia al ruolo sociale del nobile, perdita di “virtù” e ragione di infelicità. Nella civiltà della polis competizione e successo corrispondono alla parola felicità, ne costituiscono gli elementi principali. Il valore guerriero si trasforma in virtù civica. La felicità è promessa solo agli individui più forti. Sono Socrate e Platone a sollevare seri dubbi quanto all’ideale competitivo della virtù. Prima Democrito (“la felicità non consiste nel possesso del bestiame e neppure nell’oro; è l’anima la dimora della nostra sorte”), poi Socrate per il quale la ricerca del bene è fattore di “virtù”, infatti “solo chi è virtuoso è felice: in tal senso il bene morale si identifica con la felicità (eudaimonía) e il male con l’infelicità. Così l’anima, intesa come capacità di conoscenza, è l’unica autentica guida per l’uomo. Essa sola, infatti, può aiutarlo a meritare una buona sorte, quindi la felicità. Socrate individua tale guida in un daimónion che lo accompagna e si fa sentire per dirgli ciò che non deve fare. Il daimónion è metaforicamente il principio della vigilanza critica, che ciascuno deve avere nei confronti di sé stesso e degli atti che si accinge a compiere, assumendosene la responsabilità; si tratta – diremmo in termini moderni – di una specie di “voce” della coscienza”. Platone affronta il problema della felicità su un piano diverso da quello individuale: ciò che si tratta di raggiungere è la felicità della pólis. La questione diviene quindi politica, ma anche in questo contesto viene riaffermata la stretta connessione di virtù e felicità”, cioè la giustizia. Per Platone nella città giusta tutti devono poter essere felici, non solo alcuni individui, membri di un gruppo o di una classe particolare: “Noi non fondiamo il nostro stato perché una sola classe goda di una speciale felicità”, afferma Socrate nella Repubblica di Platone, “ma perché l’intero stato goda della massima felicità possibile”. Occorre cioè “plasmare lo stato felice non rendendo felici nello stato pochi individui separatamente presi, ma l’insieme dello stato” . “Solo l’uomo giusto è davvero felice mentre l’ingiusto è destinato all’infelicità. Come Socrate, anche Platone è convinto che solo la virtù sia capace di produrre una serenità d’animo duratura, dispensatrice di felicità. Si tratta di una condizione interiore di equilibrio e tranquillità che appartiene all’uomo giusto e al filosofo e che pertanto dovrebbe essere l’autentico obiettivo del filosofare. Sviluppando la tesi socratica Platone sottopone a critica l’edonismo, ossia l’idea che a fondamento della condotta vi sia il piacere e che la felicità consista in un calcolo di piaceri e dolori, o magari in uno “scambio”, cioè in una limitazione di un piacere immediato in cambio di un maggiore piacere futuro: l’unica moneta di scambio possibile, per un’anima che voglia essere felice, è il sapere. L’etica aristotelica pone al centro l’idea di felicità: per il filosofo, infatti,” “il bene perfetto è ciò che deve essere sempre scelto di per sé e mai per qualcosa d’altro. Tali caratteristiche sembra presentare soprattutto la felicità; infatti noi la desideriamo sempre di per se stessa e mai per qualche altro fine” . “La felicità, quindi, viene identificata come il fine essenziale della vita. Ogni essere vivente tende verso un fine, che è il suo “bene”. E il bene supremo dell’uomo, la sua felicità, è nell’esercizio del pensiero, nell’attività teoretica, ossia nella contemplazione (theoría), che lo contraddistingue rispetto a tutti gli altri esseri. L’attività dell’intelligenza è un modo di vivere che vale per se stesso, non come mezzo per conseguire altri beni, e come valore in sé deve essere ricercata. Pertanto, la forma di vita capace di dare la felicità non è quella che si realizza nell’impegno politico o nella ricerca di onori, successo e piaceri (poiché questa fa dipendere la felicità stessa da qualcosa di esterno all’individuo), ma è l’attività teoretica, nella quale si esprime “la natura razionale dell’uomo”. La virtù specifica della ragione teoretica è la sapienza, con cui l’uomo raggiunge la condizione di vita più eccellente, l’unica in grado di garantire un piacere elevato e stabile. Nella filosofia ellenistica si verifica una significativa rottura rispetto all’etica della pólis, in seguito al venir meno del legame costitutivo fra morale individuale ed éthos collettivo. La riflessione morale non considera più il “vincolo di politicità fra gli individui”, ma si concentra sul rapporto che il singolo ha con stesso. La virtù è saggezza; questa è capacità di conseguire un controllo ed una padronanza di sé che costituiscono il bene per l’individuo. Il saggio stoico perviene alla virtù e alla felicità conformando il suo pensiero e la sua esistenza al Lógos divino, alla regione universale immanente all’universo. Anche per il pensiero cristiano il bisogno di felicità è insopprimibile. Esso, però, muta radicalmente di segno. Il Cristianesimo e la filosofia cristiana medievale intendono dire all’uomo che ricerca della felicità e ricerca di Dio sono la stessa cosa. L’idea di felicità dei filosofi pagani presentava, agli occhi dei filosofi cristiani, il difetto di rendere “assoluta” l’aspirazione dell’uomo ai beni del mondo, nessuno dei quali, per quanto ambito e desiderato, può in realtà appagarlo. L’uomo non sfugge così a un’inquietudine profonda che solo il possesso di un bene infinito potrà acquietare. Collocata nella prospettiva della salvezza, la felicità assume per il cristiano un senso del tutto diverso, configurandosi come lo stato di pienezza, di beatitudine, che solo la visione diretta di Dio permette di conseguire. Ma, poiché la contemplazione e il possesso del Sommo Bene sono il premio da attingere nell’altra vita, la felicità viene spesso concepita come non appartenente a questo mondo: quest’ultimo è solo una ‘valle di lacrime’, in cui si vive nell’attesa di giungere alla visione beatificante di Dio. La felicità sarà il godimento di Dio, supremo oggetto d’amore.
Oggi, al di fuori dell’ambito filosofico, la ricerca della felicità e la riflessione intorno ad essa scontano in molti casi il venir meno di idee e strategie forti, di visioni della vita nelle quali la stessa personale ricerca di una esistenza “felice” trovi un senso compiuto, un orizzonte in cui collocarsi. Si moltiplicano, invece, le “ricette” e i consigli su come ‘vivere’, su come essere ‘felici’, si offrono oggetti presentati come capaci di rendere felici e che divengono, però, rapidamente obsoleti e sono periodicamente sostituiti da altri, spesso sotto l’influsso determinante della pubblicità. Questa sembra infatti divenuta la grande catalogatrice di contenuti e modi per raggiungere la felicità, come se si fosse sostituita alla filosofia e alla religione nell’indicare “che cos’è” la felicità e “che fare” per conseguirla. A maggior ragione, dunque, è importante confrontarsi con le linee lungo le quali si muove oggi la riflessione filosofica sulla felicità; ma anche confrontarsi con le idee attraverso cui, nel passato antico e medievale, il pensiero si è mosso in ordine a tale problema. Naturalmente, i pensatori del passato ci offrono solo degli spunti e delle sollecitazioni critiche e ideali che sta a noi intendere nel loro significato attuale, all’interno di una riflessione che dovremmo condurre sul senso che vogliamo (o dovremmo) dare all’esistenza per renderla felice. La felicità, cioè, diventa questione morale e problema per la filosofia, quando questa si impegna a riflettere sugli “orizzonti di senso” che si attribuiscono alla vita. È solo all’interno di una visione complessiva di sé e del proprio rapporto col mondo che è possibile individuare una via, un percorso praticabile verso la felicità. Sembra, dunque, che essa non si realizzi – come molti pensano – nell’attimo, ma sia invece espressione di una vita intera. In un caso si pensa (e si vive) la felicità come esperienza di vita molto intensa, ma anche labile e fugace; nell’altro la felicità non appare come uno stato di grazia quasi ‘caduto da cielo’, ma è una mèta da perseguire, un fine da raggiungere, qualcosa da ‘costruire’ e sperimentare come progetto e compito della propria esistenza: in questo secondo caso la felicità è una vita riuscita, una vita intera. La questione si pone soprattutto sul versante della felicità privata, che attiene a ciascun individuo come singolo, ma non si può prescindere dall’importanza della felicità pubblica, che riguarda invece l’insieme sociale cui gli individui appartengono . Comunque, con qualsiasi ottica si guardi alla felicità, vi è un tema che sempre l’accompagna e a cui rimanda: quello del dolore, della sofferenza. Infelicità che fa da sfondo al suo simmetrico positivo (la felicità), sia sul versante intimo, privato (che al turbamento e al disagio è perennemente esposto), sia su quello pubblico. La felicità potrebbe sembrare un problema che appartiene pressoché esclusivamente alla sfera dell’individuo, ma ciò è smentito proprio dalla dimensione “globale” dell’orizzonte in cui vive l’uomo contemporaneo, che costringe, di fatto, ogni individuo a guardare fuori di sé, oltre il circuito della propria esistenza. Sulla felicità individuale l’attenzione e l’impegno sono elevati, particolarmente in un’epoca come l’attuale, di individualismo esasperato, ma è il problema della felicità pubblica – o meglio, dell’infelicità di gran parte dell’umanità – a richiedere una nuova attenzione, un nuovo impegno di riflessione. La nostra pólis, oggi, essendo il mondo, le strategie per conseguire una condizione personale di benessere materiale e spirituale non possono fare a meno di misurarsi con le “miserie umane”, con i problemi dei “dannati della terra” (cioè di quei miliardi di esseri umani le cui condizioni sono tali da rendere addirittura privo di senso il chiedersi qualcosa sulla felicità). Dentro le società sviluppate, invece, pare oggi dominare un consumismo senza limiti, una sorta di “bulimia delle merci” fondata sull’idea che la felicità sia solo individuale e si fondi sul godimento di piaceri effimeri, da ripetere passando da un consumo all’altro senza mai fermarsi ed esaurirsi. Si tratta di una sorta di “edonismo infelice”, prodotto da quell’inflazione dei consumi su cui si regge il benessere stesso della società e che viene quotidianamente sollecitata da campagne pubblicitarie assillanti, condotte fino allo ‘stordimento’ del consumatore. Oggi la felicità viene spesso identificata con beni da consumare e usare in un susseguirsi sempre più veloce. Tuttavia, il disagio crescente nelle società occidentali sviluppate mostra che questo meccanismo (la ‘rincorsa’ di massa ai consumi superflui, su cui si regge la nostra società) produce anche infelicità. Difatti, non solo nelle società dove la miseria e la mancanza dei beni fondamentali toccano la maggior parte della popolazione, ma anche nelle “oasi di benessere” dell’Occidente è molto diffusa la sensazione di vivere un’esistenza frustrata e infelice. A denunciare un aumento dell’infelicità (testimoniato anche dalla diffusione delle sindromi depressive e dei casi di suicidio), proprio in corrispondenza con l’aumento del benessere materiale, sono oggi non solo filosofi e movimenti politici, ma anche psicologi, sociologi e persino economisti, che evidenziano i guasti profondi prodotti dalle ideologie della competizione e della corsa al successo individuale. Alcuni filosofi ed economisti ritengono allora necessario recuperare – sotto questo profilo – il concetto epicureo di “beni naturali e necessari”, traducendolo in quello di beni primari”, cioè di beni di cui ogni essere umano dovrebbe godere e che dovrebbero costituire una condizione preliminare per la “felicità” (considerata come “felicità pubblica” a livello globale, secondo una nuova prospettiva cosmopolitica). Riconoscere a tutti il diritto ai “beni primari” significa realizzare una precondizione per la “felicità pubblica”, la felicità di tutti, cioè promuovere, allo stesso tempo, la felicità (ma anche la libertà) in ogni angolo del pianeta (diritti entrambi riconosciuti, ricordiamo, dalla Dichiarazione di indipendenza americana del 1776). In effetti, la felicità come supremo scopo della vita di tutti gli esseri umani è acquisizione recente: da premio per la vita misurata e virtuosa di pochi e privilegiati “saggi”, la felicità è divenuta un diritto universale. Questo passaggio da privilegio a diritto – afferma Zygmunt Bauman – “fu un vero e proprio spartiacque nella storia della felicità”. Così è diventato un dovere della società rendere felice ogni suo membro. Operare in modo coerente a quell’ideale di felicità e libertà significa, oggi, impegnarsi perché da un lato sia esteso e diffuso ovunque (anche nelle società finora “tagliate fuori” dallo sviluppo) un livello adeguato di sviluppo umano, cioè di benessere materiale e di democrazia, e dall’altro siano valorizzati pienamente i cosiddetti “beni relazionali”, cioè i rapporti interumani, il sistema di relazioni in cui ciascun individuo si colloca. Si tratta infatti di realizzare ad ogni livello – e per il maggior numero possibile di persone – beni come la partecipazione, una maggiore capacità di avere buoni rapporti con gli altri (cioè di stabilire più stretti, intensi e profondi legami affettivi e di comunicazione fra le persone), sia nella vita familiare che nei legami d’amicizia o d’amore fra gli esseri umani. Si tratta inoltre di valorizzare l’integrità e la dignità dell’individuo e di sviluppare nella forma più elevata ed estesa possibile le capacità dell’intelligenza e la ‘gestione’ della propria sfera emotive” .
Foto di Mariya, Pixabay
Salvatore La Tona nasce in Sicilia nel 1975. Nel 1997 lascia l'Italia per stabilirsi in Francia dove dal 1997 al 2000, sans-papiers, lavora come operaio. Nel 2001 riprende gli studi universitari fino al dottorato di ricerca. Durante la stesura della sua tesi, Luoghi, Memoria e Professione nella Poesia di Cesare Pavese, ha pubblicato articoli e partecipato a conferenze e convegni. Collabora con diversi musicisti, poeti, registi, attori, collettivi, operai, contadini. Ha scritto testi e poesie “d’inchiesta” per molti documentari e cine-reading oltre che letture-concerto nell'ambito di festival e incontri vari. Dal 2018 organizza il Festival del Torto, nella valle del Torto, in Sicilia, e dal 2023, a Strasburgo, il Festival MéditerRhin.
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