Uno le ha viste tutte. Ha 37 anni, ha vinto uno scudetto, un campionato francese, una Europa League, una Champions League e un Mondiale. Ha vinto anche quattro FA Cup inglesi, che appena si parla di calcio niente vale come vincere in Inghilterra. Un altro ne ha viste poche. Di anni ne ha 22 e sarà l’aria che ha respirato fin dai primi anni di vita, tra le piste da sci e i campi da tennis, saranno i venti delle alpi austriache che gli hanno colorato di rosso i capelli, ma i suoi lineamenti sono duri come la roccia e il viso è quello di chi ha visto tutto. L’ultimo invece non ha visto niente. Ha 15 anni e il suo debutto in Serie A è lontano pochi secondi. 15 anni e sentirli tutti. La maglia che porta è la stessa del primo. Ha origini siciliane. Origini che profumano di genti andate via.
Doveva andare solo in panchina, Francesco Camarda, ma come sempre in Italia noi le cose le gonfiamo. Se fa il debutto, fa il record. 15 anni e qualcosa, il più giovane di sempre e sembra che i numeri siano tutto quello che è rimasto per emozionare le persone. Non doveva entrare. C’era Luka Jovic, quello dei 10 goal in Europa League con l’Eintracht di Francoforte, poi passato a Madrid insieme a un treno di milioni. Solo che per Madrid non era pronto e quando non sei pronto ti bruci. Luka entra, gioca, ma non emoziona. O forse è Milano, che non si emoziona più. E allora bisogna fare qualcosa. Qualcosa di forte, come un boato. Si scalda il ragazzino, entra in campo il ragazzino. E San Siro il boato lo lascia andare come se fosse un vulcano pronto a liberare tutti i diavoli del mondo. Ruggisce, grida. Il ragazzino abbraccia Luka e nel vulcano si butta di corsa. Corre, fa un respiro. Alza gli occhi. Vede cos’è la sua vita quel giorno e sorride. No, non è il sorriso del debutto in Serie A. È il sorriso di un bambino che pensa “che figata”. Un po' giocare a calcio nel suo posto preferito con la sua maglia preferita. E adesso sì, San Siro si emoziona. L’Italia si agita perché, anche se l’abbiamo imbruttita, l’Italia alla bellezza è il paese più sensibile di tutti. Il ragazzino corre. Anche se non ha visto ancora niente. O forse ha già visto abbastanza.
Quello di 22 anni sta giocando le ATP Finals in un paese che è casa sua, nonostante qualcuno dica di no. Sulle montagne al confine austriaco non è cresciuto parlando italiano e non è sempre fluido quando rilascia interviste in quella lingua. Parla bene, ma è contratto, quasi si sentisse osservato. E vorrei vedere, con quella massa di italiani, italioti, leoni e giornalisti incattiviti pronti a fargli la radiografia. Non è andato a giocare la Davis, all’Italia non ci tiene. Non è andato alle Olimpiadi, non ama l’azzurro. Firma un decennale da cascate di milioni con Nike quando non ha vinto nemmeno un torneo. Va in campo con una borsa da palestra di Gucci che la gente venderebbe l’anima al diavolo per avere e allora tutti a dire che è lui, quello che l’anima l’ha venduta. Come se fosse colpa sua. Ora quelle scarpe e quella borsa stanno per essere testimoni di una cosa grande. Djokovic non è quello dei giorni migliori, vero, ma Jannik Sinner fa paura. Da qualche mese sposta le montagne e fa tremare la terra. Corre come un ghepardo, varia, è una potenza. I lineamenti sono duri, decisi, belli e incazzati come il vento del nord. Perché uno che a 17 anni ai microfoni di Sky, con quella faccia, dice che vuole diventare il numero uno, lo prendi sul serio per forza. Ed è sempre così il ragazzo. Riservato, tranquillo, quasi non si sa che voce abbia. È sempre così, fino quando non è ora di servire per il match. Che non vuol dire vittoria, soprattutto col demonio serbo dall’altra parte. Non vuol dire vittoria, ma Jannik va a prendere le palline per servire e sorride. Sorride come un bimbo che si diverte da matti e deve riprendere a giocare subito, perché di una gioia così non si butta via neppure un secondo. Sorride come un bimbo che non si è mai gasato così tanto in vita sua. Che figata. Fa quello che ama in un posto che lo fa sentire a casa e vaffanculo quelli che gli fanno le radiografie. Ha tanto da vedere, ma quel giorno vede tutto chiaro come dalla cima dei suoi monti. Sorriso, set and match. Ah, quando parla dei suoi amici, di come giocano a burraco e alla PlayStation, il suo italiano è meglio di quello di tanti giornalisti.
Ecco, poi c’è quello che ha 37 anni. Quello a cui dicono che più niente lo può sorprendere perché dai, la magia è finita. Eppure non è vero. Non in quel Genoa-Milan, col Milan che conduce 1-0. Manca pochissimo. Maignan, il portiere del Milan, esce dalla sua area un po’ in ritardo. Un po’ scoordinato. Gamba in aria, fallo, cartellino rosso. Punizione da fuori area. Ha finito i cambi il Milan e in porta serve uno più alto, così la maglia verde di Maignan se la mette lui. Quello che le ha viste tutte sì, ma solo fino a quel momento. Il Genoa va in porta. Lui para, non bene, ma chi se ne frega. La palla è viva, viene di nuovo buttata verso la sua area piccola e allora lui esce. Il mondo si ferma e i cuori rossoneri anche, per un attimo non battono più. Un groviglio di gambe e di anime. La palla la prende lui. Gli sfugge, la riprende, la blocca. Ci si butta sopra come a dire ti ho presa. È chiuso a riccio su quel pallone colorato, il volto schiacciato sull’erba e adesso ride. Ride come Olivier Giroud, quel bambino che stare in porta era una figata. Quello che ha parato centinaia di tiri cadendo di faccia sull’erba e sull’asfalto di Chambéry. Quello che gli ha detto quando partire per prendere la palla e ha detto alle sue mani come raccoglierla. Quel bambino è lì, anche 30 anni dopo. Perché è vero che ogni volta che ti metti la divisa torni ragazzino. Non importa quale. Del torneo di calcetto o del Milan o della Nazionale. Non importa niente.
Dicevano che bambini a un certo punto non si potesse più essere. Dicevano che il mondo il sorriso te lo strappa via, dopo che hai visto tutto. E invece non è così. Il sorriso sui campi da gioco c’è ancora. A 22 anni, a 15 e a 37, è sempre lo stesso, come a dire siamo ancora umani. Ribaltiamo il mondo, prendiamo a calci il vento, abbiamo i soldi di Zio Paperone e non è colpa nostra. Siamo esseri umani. Siamo bambini con la divisa da gioco. E non è colpa nostra. È merito nostro. Perché sappiamo ancora cos’è un sorriso. E voi? Voi lo sapete cos’è un sorriso?
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Lia Rebecca Valerio nasce a Portogruaro nel 1987. Inizia a giocare a pallacanestro nella squadra del suo paese, Concordia Sagittaria. Dopo i campionati giovanili in maglia Pallacanestro Concordia e Reyer Venezia e alcune stagioni passate in giro per l’Italia, veste per la prima volta i colori della Virtus Eirene Ragusa nel 2011. Con la Passalacqua gioca fino al 2017/18, ultima stagione prima del ritiro. Nelle stagioni successive collabora con la Virtus Eirene a livello giovanile e senior, ricoprendo incarichi in ambito tecnico e dirigenziale. Ha pubblicato Storie a spicchi una raccolta di racconti di sport.
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