Nella retrospettiva critica sul cinema del Novecento, emerge il ricorso alla letteratura per la legittimazione culturale, ovvero per dimostrare la dimestichezza con le arti e offrire al pubblico uno spettacolo qualificato, diverso dal mero intrattenimento. Del resto, la letteratura costituiva un grande deposito di cultura, soggetti, modelli narrativi, tipologie di personaggi e di ambientazioni, funzionali al prestito, all'ispirazione e alla derivazione di altro materiale concorrente alla conversione in immagini; e talvolta il successo economico di un'opera letteraria invogliava a ripetere lo stesso traguardo nella trasposizione sul grande schermo, senza mai ritenere il cinema un sussidio didattico e subordinato, con funzione contenutistica e illustrativa. Infatti, il rapporto tra cinema e letteratura non può inscriversi nei termini dell'attribuzione di primato all’uno o all’altra, piuttosto di finalità narrative e di compiutezza estetica; e, nonostante il debito nei confronti della letteratura, il cinema ha cercato e costruito la propria indipendenza, anche perseguendo la reciprocità di influenze e maturando pellicole nate da storie originali ed esclusive. In tutte le altre ipotesi di interazione tra cinema e letteratura, ovvero tra il linguaggio delle immagini e delle parole, la mediazione è affidata alla sceneggiatura, che attraverso la riduzione, l'adattamento o il disadattamento (ovvero la distanza temporale e l'esperienza della vita che separano i contemporanei dal testo), la traduzione, le scalette e il trattamento, conferirà al film autonomia semantica, specificità espressiva e valenza estetica indipendentemente dall'opera letteraria. La fedeltà della pellicola è un falso problema: i percorsi dell’originalità non conoscono cartelli indicatori, il rispetto del libro non frena la creatività del regista, e la libertà può implicare un’idea di cinema aperta al confronto con il testo letterario. Una precisazione a riguardo viene dall'esperienza dei registi che hanno circostanziato l'unicità e l’autonomia del cinema: così per i fratelli Paolo e Vittorio Taviani, che ritengono che il film non debba illustrare il romanzo cui è ispirato; così per Marco Bellocchio, che individua la difficoltà nella trasposizione della pagina scritta in immagini irreali e visionarie; così per Mario Martone, per il quale, a differenza della mutevolezza del teatro a ogni replica, il cinema «è fatale: c’è qualche cosa che accade, a un certo punto, e non si può cambiare mai più»; così per Francesco Rosi, certo che, se nel romanzo si può tornare indietro e un dialogo può essere dimenticato, nel film «l’immagine è impositiva». Quanto agli scrittori, se per Alberto Moravia, il cinema è un prodotto culturale complesso e ha «un significato che lo oltrepassa», per Andrea Camilleri, già docente al Centro Sperimentale di Cinematografia e all’Accademia Nazionale di Arte Drammatica, tra opera letteraria e trasposizione cinematografica sussistono prima «uno scarto», perché «viene a mancare che, quando ricevi l’immagine, non hai più margini di libertà in rapporto all’immagine. Mentre, quando leggi la pagina scritta, hai un’estrema libertà di immaginarti le cose», e poi «una sorta di scarsa perdita ...quando si individua, all’interno della pagina scritta, non tanto ciò che avviene nella pagina, ma quello che la pagina rappresenta nell’economia del romanzo e ciò che quella pagina ha come peso specifico parziale all’interno del peso specifico totale del romanzo», concludendo che «una buona sceneggiatura cinematografica è quella che ha limitato al massimo il danno. (...) Nel ballo famoso del Gattopardo, dentro quel ballo c’è tutto. Ci sono tutti i rapporti tra i personaggi che sono narrati attraverso varie pagine che confluiscono in quelle immagini. Questo è difficilissimo e lo può ottenere solo un regista enorme come era Visconti».
E davvero Luchino Visconti (1906-1976), lui stesso attento lettore di testi italiani e stranieri, ha fatto ampio ricorso alla letteratura nella propria produzione artistica, quale punto di partenza per mescolanze, mutamenti delle valenze originarie e reinvenzione di funzioni e significato. Nel caso de Il Gattopardo, Visconti realizza spostamenti, espansioni e condensazioni: diversi sono l’incipit e l’epilogo, mancano le parti quinta, settima e ottava, il tempo del film si svolge tra il 1860 e il 1862 (anziché dal 1860 al 1910). Soprattutto gran parte dell’introspezione del protagonista, disseminata nelle pagine del libro, si concentra nella macrosequenza del ballo, cui il regista riconduce i temi della storia e dell’esistenza, guardando alla lezione di Verga e di Proust, e nella scena all’interno della biblioteca di Don Diego, dove la stanchezza del Principe per il ballo riflette quella per la vita, nel contrasto tra la bellezza di Angelica e il dipinto La morte del giusto di Greuze, come tra Eros e Thanatos.
Dell’indagine sulla casualità di percorsi tracciati dalla pubblicazione del romanzo e dall’uscita del film, oltre l’ampio interesse della critica letteraria e cinematografica negli anni, si è occupato recentemente lo scrittore Francesco Piccolo in La bella confusione (Einaudi 2023), titolo proposto in prima battuta da Ennio Flaiano e scartato da Federico Fellini, per la sceneggiatura di Otto e ½. Il libro nasce dalla trama di storie raccolte a margine delle conversazioni dell’autore con Claudia Cardinale, e dalla singolare coincidenza messa a fuoco dall’attrice, protagonista nello stesso anno di due grandi film, Otto e ½ e Il Gattopardo, girati quasi contemporaneamente, tanto da dovere sopperire con il montaggio alla sua assenza sul set di Fellini, perché impegnata nelle riprese con Visconti. E, in particolare per Il Gattopardo, Piccolo approfondisce il rapporto tra romanzo e film: «Il film di Visconti è talmente legato al romanzo che viene indicato come una delle trasposizioni esemplari della storia del cinema (...) il romanzo e il film sembrano intercambiabili, ...come se fossero due possibili fruizioni della stessa opera, un risultato che pochissimi film tratti da libri hanno raggiunto...forse nessun altro». Del controverso cammino del romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1896-1957), dal rifiuto di Mondadori e di Einaudi fino all’edizione postuma del 1958, si legge nella prefazione di Gioacchino Lanza Tomasi: «La risposta personale di Vittorini raggiunse Giuseppe Tomasi a Roma: «Come recensione non c’è male, ma pubblicazione niente» - mi disse il giorno prima della sua morte. Vittorini ... segnalò alla Mondadori di tenerlo d’occhio, ma, come mi ha riferito Vittorio Sereni, sfortuna volle che il burocrate di turno, invece di rispondere all’autore con una lettera interlocutoria, restituisse il dattiloscritto al mittente con le generiche frasi d’uso. I diciotto mesi intercorsi fra l’invio del dattiloscritto a Elena Croce e la sua pubblicazione nei “Contemporanei” della Feltrinelli non sarebbero statti poi troppi se la morte non fosse stata più lesta». La vicenda è ripresa ironicamente dallo stesso Piccolo, che ascrive la pubblicazione a una casualità: il manoscritto destinato a Elena Croce e smarrito era stato ritrovato dalla domestica in un armadio, successivamente la stessa Croce lo diede da leggere a una rivista, il cui capo redattore era Giorgio Bassani, che ne rimase favorevolmente colpito tanto da chiamare Mario Soldati, ignorandone l’autore. La Croce l’avrebbe attribuito a un’aristocratica palermitana; invece era di Tomasi, che Bassani aveva casualmente conosciuto a San Pellegrino Terme nel 1954, dove aveva accompagnato a una manifestazione per la presentazione di autori emergenti il cugino Lucio Piccolo, autore di una raccolta di versi inviati a Montale. Questi credeva di dovere presentare un giovane poeta: e invece si presentarono un maturo barone siciliano e un tipo alto, corpulento, con i baffetti e il bastone da passeggio, tanto più strano perché indossava il cappotto in luglio: è il principe Tomasi di Lampedusa. I due aristocratici siciliani destano sorpresa, Lucio Piccolo riscuote un discreto successo e Tomasi rientra in Sicilia con il progetto di scrivere un romanzo storico, come dichiarerà a un giornalista al convegno e soprattutto all’amico Guido Lajolo in una lettera, ironizzando sul risveglio di una «violenta attività artistica» nei tre cugini: «Benché io voglia molto bene a questi cugini, debbo confessare che mi sono sentito pungere sul vivo: avevo la certezza matematica di non essere più fesso di loro. Cosicché mi sono seduto a un tavolino e ho scritto un romanzo». Dopo la sua morte, quanto l’opera avrebbe lasciato il segno si comprese da subito: malgrado ancora bersaglio di pregiudizi ideologici e in gara con contendenti quali Pasolini, Fenoglio, Testori e Campanile, nel 1959 ottenne il Premio Strega, con grande successo commerciale e gli elogi della critica più avveduta. La buona accoglienza da parte del pubblico apre la strada verso il grande schermo, con l'ipotesi dell'incarico a Mario Soldati, il contratto con Ettore Giannini e infine l'affidamento a Luchino Visconti, come racconta la sceneggiatrice Suso Cecchi d’Amico: «Goffredo Lombardo – la Titanus – ne aveva comprato i diritti e aveva commissionato il film a Ettore Giannini… Del Gattopardo lui aveva fatto una riduzione libera, una sorta di fantasia siciliana, … mentre Lombardo desiderava un lavoro ce rispecchiasse il libro, che aveva gran successo all’estero, e aveva già trattato con la Fox. Giannini si impuntò, il suo contratto fu onorato, ma il film fu offerto a Visconti, che lo accettò». Nelle pagine di Francesco Piccolo, la ricostruzione delle vicende che portarono al film evidenzia la giostra delle casualità intorno alla produzione: l’avvicendamento di Ettore Giannini, la sceneggiatura rifiutata dai coproduttori americani, la scelta di Burt Lancaster, il «cowboy texano» inviso a Visconti; la concomitanza di Otto e ½, la rivalità con Federico Fellini, la reazione negativa della critica di orientamento marxista, che da Visconti aspettava un altro film d’impegno politico anziché un’opera estetizzante, secondo il pregiudizio modellato sul romanzo, ritenuto reazionario; le false leggende sui fiori freschi fatti venire ogni giorno da Sanremo, e sul set illuminato solo da candele, la valutazione da parte dei contemporanei, la cui misura non fu il riconoscimento della grandezza oggi attribuita al film di Visconti.
Infine, non ci si può non soffermare sul racconto del sentimento profondo della vita, che immette nella trama - la vicenda storica unitaria e la ricaduta sulla emergente questione meridionale - i temi di prossimità biografica a Tomasi di Lampedusa e autobiografica per lo stesso Visconti. Negli anni Trenta lo scrittore siciliano è un colto commentatore di testi francesi, ed egli stesso scrive in lingua francese le sue lettere d’amore ad Alicia Wolff, Licy, sua futura moglie; forse l’idea del romanzo è in embrione. Agli stessi anni la critica fa risalire Angelo, il manoscritto incompleto di Visconti, romanzo di apprendistato alla vita di un adolescente tra varie esperienze, in cui emerge la prima attitudine alla descrizione cinematografica, la cura dei dettagli, il linguaggio per immagini, la riflessione estetizzante sul fascino velenoso di poveri, proletari e gente semplice – come la gioventù di Angelica, trionfante sulla bruttezza scadente delle aristocratiche cugine di Tancredi – e sulla morte, che richiamerà violenza e purezza in Angelo, e decadenza non solo ne Il Gattopardo. Si tratta di una prova letteraria parziale, che si inscrive nel realismo sociale della prima produzione cinematografica di Visconti, lontano dalla sua estrazione aristocratica – il padre è il Conte Guido Visconti di Modrone, la madre Carla Erba è figlia dell’omonimo titolare dell’azienda farmaceutica e di Villa Erba, la sontuosa dimora nobiliare dove Luchino cresce con i fratelli – le cui tracce si perderanno più avanti nella scelta artistica impegnata e nella drammatica consapevolezza della dissolvenza del mondo a cui è appartenuto, quale tratto comune anche a don Fabrizio. La sovrapposizione autobiografica tra il regista e il personaggio si compirà nel requiem alla nobiltà (per la mancata fedeltà alla corona borbonica in favore del Regno di Savoia e per la sconfitta inflitta dalla Storia) e nell’accettazione del rapporto tra la vita e la morte, consacrato nella scena del ballo. Tale identificazione fu l’eccezionale intuizione di Burt Lancaster, e gli consentì la sua straordinaria prova d’attore nel film. L’americano non piaceva al regista: non lo riteneva adeguato al ruolo, lo escludeva dalle frequentazioni serali comuni al cast e soprattutto non gli dava nessuna indicazione per la recitazione sul set. Questo esilio consente a Lancaster di osservare con distacco Visconti, e di realizzare che è lui, con i suoi tratti aristocratici e tormentati, il Principe di Salina. Ne imita allora la camminata, le movenze, l’aristocratica malinconia, costruendo mirabilmente il personaggio scolpito nella memoria del pubblico di ogni tempo. E superando il realismo sociale e l’impegno politico della precedente filmografia, anche lo stesso Visconti, più vicino a sé stesso anche nei film successivi (Ludwig, Morte a Venezia, Gruppo di famiglia in un interno) e avvolto nell’atmosfera proustiana del mondo in cui ha vissuto, si trasformerà in don Fabrizio durante le riprese, per incantesimo del cinema.
Bibliografia
Pubblicista, laurea in Lettere e tesi sulla scrittrice Alba De Cespedes, e romana dal primo amore per le sue pagine nelle vie del quartiere Prati, maturato nell'andirivieni tra Roma, Catania e un borgo di mare ragusano. Ho collaborato negli anni con giornali e blog, agenzie di servizi editoriali e riviste letterarie. Credo nella letteratura e nella conoscenza umanistica, nel potere della parola e delle parole.
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