Non l’ho nemmeno cercato. Dentro al mio immaginario c’è entrato come in bilico su un ramo di una quercia spoglia, con un megafono ad un orecchio, cantando le note uccelliformi sui fili della luce, con la sua Pontiac del ’59 parcheggiata ai margini di una delle strade polverose del Big Sur, in California. Proprio lui che racconta di esserci nato, a bordo di una Pontiac, sul sedile posteriore per le strade notturne di Pomona, e lo dice con quella voce da bevitore di fumo di marmitte, che gli tireresti addosso uno scarpone sudicio per convincerlo a farlo, un dannato colpo di tosse, per schiarirsi un po’ quella voce di catrame – ma niente.
Il primo vinile che ho tirato via da uno scaffale è stato Blue Valentine, arrivato a casa mi sembrò già maltrattato, i suoi solchi uno scricchiolio legnoso di passi incerti dentro a una atmosfera hopperiana intrisa di mucillagini, cenere di sigari e luppoli di seconda mano: leggendoci su anche qualcosa di Kerouac o di Whitman si possono percepire – al di là di una finestra che si chiude male sulla strada – il gocciolio di grondaie, echi di sirene e improvvise sgommate, riverenza di fronde ad un vento capriccioso, e lo spaesamento di un cane dopo la pioggia.
La mia scoperta era stata Frank’s wild years – primi anni di università – l’ipnosi di una sorta di intro con tappeto sonoro di hammond & contrabbasso, l’accensione di una sigaretta senza filtro, qualche colpo di tosse in mezzo a una specie di monologo annoiato e sbrigativo. Avevo acquistato la musicassetta, e avevo iniziato ad ascoltare l’intero nastro in autoreverse immerso nel buio della mia stanza, Catania è un po’ Los Angeles anche quando è sera, e per una suggestione inesplicabile già allora iniziai a pensarlo come il personaggio di un qualche mio scritto: lo scorgevo a fatica dai riflessi che si arrampicavano dall’incrocio di via Citelli, cappellaccio scuro mal sistemato sulla fronte come a caso, una ciocca bisunta davanti alle fessure degli occhi, una bocca da asino anziano con schegge d’avorio lercio e un ciuffo caprino sotto il labbro inferiore, e poi quelle sue dita, innesti malfatti con una sigaretta eterna in mezzo e magari una bottiglia con dell’alcol, qualunque esso fosse, ai piedi della sedia, pronta a rotolare via (la bottiglia, ma pure la sedia).
“Chissà se i cani hanno la nausea?”, immaginavo potesse chiedermi, con quella voce granulosa di ghiaia insabbiata. Più che Sartre, sarebbe stato quasi un ‘koan’ zen, uno di quelli che ti apre in due i neuroni come Mosè fece con le acque. Poi, una sera andai al cinema Lo Po, a cavallo tra l’87 e il 1988 e alle prese con diritto costituzionale, c’era il nuovo film di Jim Jarmusch, tutto bianco nero silenzi & sottotitoli, proprio con lui, e con Benigni e John Lurie. Daunbailò.
Man mano che scorrevano le immagini, venivo assorbito sempre più da quelle atmosfere derelitte, da quelle solitudini incontrollate, dalle dissonanze di note sghembe e sbandate, le ombre casuali sbattute su muri lerci, visi sfatti in angoli malfamati, e ancora, carrellate lungo cimiteri, stradacce marginali, e ristagni palustri – e neppure la parvenza di una qualche immotivata ebbrezza.
Giuro, avrei preso in affitto una Chevrolet scoperta per andarlo a trovare fino alle parti di Santa Monica, percorrendo senza fretta la Route 66 da Oklahoma City, in uno di quegli andirivieni insensati di Kerouac e Cassady fatti di sudici motels, di polvere assolata, di gas stations improvvise come miraggi, e di notti costellate da rocce & asfalto smarginato, per andargli a chiedere: “Ma come riesci a trasformarti in così tanti te stesso senza perdere mai quel te stesso che realmente sei?”. Perché, in fondo, il segreto di Tom Waits (a proposito: è di lui che sto parlando) è proprio questa sua capacità di mimetizzarsi e che permette al suo mondo di aggrapparsi alla realtà ma anche di tenersene completamente al di fuori. È questo sua attitudine a preservarsi come il randagio di un sobborgo costretto ad attraversare l’incrocio principale nel barbaglio di un lampione senza manutenzione.
E invece devo inseguire ritagli di giornale, apparizioni non telecomandate, interviste indirette, sono costretto a interpretare gesti istrionici, a inventare dialoghi, pur di poter scrivere qualche riga maledetta su un personaggio che amo e che risulta troppo ampio e sfuggente nelle sue istrioniche mimesi.
“Jim (Jarmusch, nda) una volta mi disse: «Veloce, economico e buono. Scegline due». Ecco uno dei miei motti preferiti: scegline due…” (ghigna).
Nel film lui è DJ Zack, si ritrova dietro le sbarre insieme a Jack-Lurie per aver vagato, sbronzo, per le strade della città, con un cadavere nel cofano. Tutto scorre come tutto riesce a scorrere in fondo a una cella asfittica di un carcere qualsiasi, finché non piomba all’interno pure un giovane ‘Bob’ Benigni, reo di aver fatto fuori un tizio con una palla mentre giocavano a biliardo.
Da quel momento in poi il film vive di questi sussulti estemporanei in mezzo a quadri di Hopper, di trovate giullari dentro dissensi dylaniati & abbandoni alla Bukowski, di incomprensioni linguistiche che divengono surreali corali marxiane (nel senso di Groucho). Come quando Bob-Benigni tira fuori il suo notes sgualcito per reperire il termine “scream” (trad.: urlo) e tirarci fuori una nenia galeotta (“I scream / you scream / we all scream / for an ice cream…”) da schiamazzare in risate. Oppure come quando becca proprio Zack-Waits in una veranda in penombra, sbronzo come una scimmia e in mano una bottiglia che ha l’aria di essere molto alcolica (e troppo vuota), a canticchiare It’s a sad & beautiful world: Zack gli fa segno di andare fuori dalle palle (“Buzz off, pal…”), e Benigni annotando il tutto nel suo notes gli fa eco, “Oh, buzz off… Buzz off to you too!...”, senza avere l’idea di cosa voglia dire.
Evasione: è quello che avviene quando Bob, attraverso la condotta fognaria, li guida via in fuga in mezzo alle paludi della Louisiana. È il senso di questo andare via da, senza una destinazione o una dimora, senza le scarpe o uno scopo, separandosi e ricongiungendosi ad ogni bivio dopo ogni litigio, attraverso tutti i silenzi e le disfatte interiori, attraverso letti cigolanti, danze in penombra e inquietudini riflesse come sagome su pareti muffe.
In tutta questa deriva irredimibile di vite desertificate e abbandonate a se stesse, Tom Waits sembra l’unico personaggio entrato in punta di calzini rabberciati dopo aver lasciato gli scarponi sformi dietro la porta della realtà: e in tutto l’inesorabile dipanarsi delle riprese, Tom non sembra altro che quel se stesso che ritira il Grammy Award per Bone Machine e Mule variations; che si esibisce live nel tour di ‘Big Time’; che fa il buttafuori o serve ai tavoli in due locali di San Diego; che interpreta un personaggio di Raymond Carver diretto da Robert Altman; che dirige il vento con la sua raucedine da orco misantropo, o che si accascia di traverso su un piano scordato davanti a tre spettatori dopo aver pisciato dietro le quinte.
Quel se stesso che si emoziona guardando dal pulpito della ‘Rock and Roll Hall of Fame’ sua moglie Kathleen, non prima di aver bofonchiato (a proposito di Down by law o Daunbailò che dir si voglia), “Di solito c’è una acustica favolosa, in una prigione…”.
- Vanity Fair: “In quale occasione ti capita di mentire?”
- Tom Waits: “Chi ha bisogno di una occasione?”
(Intervista Vanity Fair, novembre 2004)
Giuseppe Cusumano è nato nel 1968 in un paesino del Polesine che oggi non esiste più, da genitori etnei di Militello in Val di Catania. Vive a Ragusa da oltre 40 anni e scrive quasi da sempre, da mancino corretto: ama la musica, nuota e si diletta di fotografia, ha praticato calcio e arti marziali, si nutre di libri, di natura e di umanità.
Risulta curioso, poco ortodosso, distrattamente attento, dotato di ottima memoria - e anche per questo dicono soffra di ‘retrotopia’.
Di professione Malaùssene, da nove anni coordina un Progetto di volontariato (nato in Ambasciata e radicato presso la missione di Kitanewa) per la costruzione di scuole di ogni ordine e grado nella regione di Iringa, in Tanzania, e continua a farsi correggere i compiti dalla sua prof di lettere.
Ha pubblicato diversi racconti e articoli, un diario di viaggio africano (Quaderni tanzani, OperaIncerta Editore), un romanzo (La terza banca, La Zisa Ed., recensito su Repubblica), e incredibilmente una raccolta di poesie (Minimalia, Libro Italiano World Ed.).
Saltuariamente ha scritto su un blog, ma non è cosa sua.
In compenso, a breve pubblicherà il suo nuovo romanzo, ambientato in Africa, dal titolo Agli elefanti invece sì, editore cercasi.
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