Non è capitato a molti di vincere un Oscar (miglior film straniero) a 33 anni, al primo lungometraggio. A Henckel von Donnersmark era già parso un “miracolo” aver coinvolto nel suo progetto alcuni tra i migliori attori tedeschi dell’epoca che ne colsero con entusiasmo le potenzialità. Il regista di Colonia aveva una formazione notevole, studi importanti e aveva girato alcuni corti ma fino a quel momento non si era mai cimentato in un lungometraggio. L’idea iniziale prese quota e spiccò il volo.
Il titolo del film in questione è: Le vite degli altri (Das leben der Anderen, anno 2006, 3 anni di lavorazione). È ambientato nella DDR, la Repubblica Democratica Tedesca (anno 1984), caratterizzata da un regime a tutti gli effetti dittatoriale. Come scrisse la giornalista Anna Funder nel bel libro C’era una volta la DDR si era purtroppo passati repentinamente e traumaticamente dall’“idillio” (allontanarsi il più possibile e il prima possibile dall’atroce vicenda nazista, costruire un mondo più giusto ed egualitario per le classi lavoratrici e per il popolo) all’“orrore” (ossessione paranoica del sospetto verso tutto e tutti, la mania del controllo di ogni vicenda personale, lo svilimento delle libertà individuali, la corruzione dilagante). In questo contesto Wiesler (interpretato dall’indimenticato meraviglioso Ulrich Mühe) rappresenta un ingranaggio impeccabile della Stasi (polizia segreta di Stato), un esecutore feroce e pignolo di torture, minacce, persecuzioni, attività meticolose di spionaggio. È “scudo e spada del Partito”, come si diceva in quegli anni. Le sue certezze cominciano a scricchiolare quando inizia a spiare Georg Dreyman (autore teatrale apprezzato sia ad est che ad ovest del muro di Berlino) e la sua compagna Christa-Maria Sieland (attrice teatrale stimata, popolare e fragile). Ascoltando le vicende dei due, attraverso auricolari collegati alle microspie, Wiesler viene pian piano trasformato dalle loro emozioni, dall’autenticità del loro essere artisti; e dal loro amore tormentato e perseguitato da un dirigente di partito senza scrupoli. Inizia a leggere un libro di poesie di Brecht, cerca una disperata tenerezza nella compagnia di una prostituta, quasi a compensare una vita che ora gli appare vuota e colma di solitudine. E inizia a scrivere falsi rapporti per proteggere Dreyman, autore (dopo il suicidio dell’amico Jerska) di un articolo esplosivo di denuncia sulle percentuali dei suicidi nella DDR, pubblicato dall’occidentale “Der Spiegel”. Sacrifica tutto il suo mondo di prima (carriera, lavoro, certezze) per una nuova consapevolezza.
Dopo la caduta del muro Dreyman scopre di essere stato spiato e capisce che qualcuno lo ha protetto. Gli dedicherà il suo libro Sonata per gli uomini buoni. È il riscatto dell’uomo attraverso l’arte e attraverso i sentimenti che essa può scatenare dentro di noi.
Quattro anni dopo il trionfale successo di Le vite degli altri, Henckel von Donnersmark viene coinvolto in The Tourist (2010), un film senza infamia e senza lode in stile hollywoodiano, che ha per protagonisti Angelina Jolie e Johnny Depp.
Girato a Venezia, remake del film francese Anthony Zimmer, è un thriller sentimentale che ha ricevuto critiche molto contrastanti.
Scotland Yard insegue Elise nell’intento di arrestare il suo amante, Alexander Pierce, reo di una colossale evasione fiscale. Pierce si è rifatto il volto con un’operazione chirurgica e questo lascia lo spettatore in un prolungato stato di incertezza sulla sua vera identità. Suspence, romanticismo ed un epilogo originale.
Passano altri otto anni prima del terzo (a, al momento, ultimo) lungometraggio. Opera senza autore (Werk ohne author, 2018, liberamente ispirato al pittore Gerhard Richter) ha ancora una volta per protagonista l’arte ed il suo potenziale effetto dirompente sull’essere umano. Le vicende di Kurt Barnert attraversano la storia della Germania dal 1937 alla fine degli anni sessanta.
Da bimbo vive il trauma dell’imprigionamento della zia schizofrenica Elisabeth, vittima del terribile e delirante progetto nazista: lo sterminio (oltre al popolo ebraico, alle minoranze etniche, agli oppositori e agli omosessuali) delle persone con problemi psichici.
Arriva la seconda guerra mondiale, che viene sintetizzata da una sequenza struggente, nella quale il regista alterna in successione tre diversi punti di osservazione della guerra: il devastante bombardamento di Dresda, l’estremo sacrificio di due fratelli partigiani, la camera a gas. A mio avviso è un momento molto potente del film.
Anni cinquanta. Kurt scopre in sé una grande predisposizione artistica e la approfondisce all’interno della DDR, dedicandosi all’arte di regime, con opere che inneggiano al partito comunista, alla “madre” Russia ed alle tematiche ritenute ideologicamente consone. Il suo talento è innegabile e riconosciuto ma il contesto gli sta stretto e decide con la fidanzata Ellie di spostarsi a Düsserldorf, dove cerca la sua vera identità attraverso l’arte moderna. Sulla sua strada c’è il suocero, il professor Carl Seeband, ex ufficiale medico nazista, responsabile, ad insaputa di Kurt, dell’uccisione della zia e di tanti come lei. È riuscito a rifarsi una vita al riparo dal suo passato. Un passato che busserà alla sua porta solo grazie all’opera inconsapevole di Barnert (con un nuovo stile pittorico basato su vecchie foto di autori spesso sconosciuti e proprio per questo “senza autore”). Davanti al quadro raffigurante Seeband, la zia di Kurt ed il comandante delle operazioni di sterminio, anche l’impassibile, glaciale, incrollabile Seeband avrà un palese cedimento emotivo, forse consapevole per la prima volta della scia di morte che si è lasciato alle spalle.
Vari personaggi “minori” arricchiscono il film prendendosi la scena prepotentemente: ricordiamo il disperato attaccamento alla vita della zia Elisabeth, aggrappata al professor Seeband per indurlo a risparmiarla; la sofferta, ingenua e cieca fedeltà alla DDR del professore di Dresda; l’idealismo umiliato del padre di Kurt; l’arte del professor Antonius van Verten (personaggio che ricorda l’artista Joseph Beuys), ispirata dal ricordo del dolore delle ferite di guerra e delle cure amorevoli ricevute da alcuni indigeni. Cercando di motivare Barnert gli racconta che ogni sua opera viene realizzata entrando in sintonia con l’esperienza del grasso salvifico spalmato sulle sue ferite in testa. Cosa può rappresentare l’arte per l’essere umano…
Marcello Gurrieri è nato a Ragusa il 09/05/1973 ma risiede a Mascalucia (CT). Ha curato per 10 anni, dal 2007 al 2017, per il sito di Legambiente Catania, la rubrica "ecofilm...ecopensieri" incentrata su opere artistiche a tema ambientale; ha inoltre scritto piccole recensioni cinematografiche per vari periodici e articoli sull'attualità per "Argo Catania". Ha frequentato il corso di sceneggiatura cinematografica tenuto presso il Teatro Impulso di Catania. Ha scritto e pubblicato i seguenti libri: "Le anime libere della notte" con la casa editrice Libroitaliano; "L'ostinazione della speranza - Credere, sentire, vivere" e "Il rugby ... secondo me" con ilmiolibro.it. Ha inoltre scritto altri piccoli lavori divulgati autonomamente: "Grazie bisteccone! - Omaggio a Giampiero Galeazzi"; "I portieri più pazzi del mondo"; "Magma rock - Eravamo ragazzi nella Seattle d'Italia"; "Zagare nell'universo". Ha lavorato prevalentemente nel sociale e continua attualmente a farlo.
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