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La verità di un nuovo presente

Sara Sigona 14 marzo 2024


Fotografia e cinema hanno il fascino di catturare storie, elicitare emozioni, nutrire visioni, creare immaginari, inchiodandoci attoniti dinanzi alla bellezza e alla potenza di immagini che si condensano in un istante, in quel momento fugace che diventa eterno, grazie alla sua rappresentazione visiva sia essa statica o dinamica.
Nell’era digitale in cui strumenti e linguaggi in continua evoluzione favoriscono la narrazione di nuovi mondi, l’istante non è più, come in passato, la definizione chiara di uno spazio e di un tempo, ma si apre a infinite possibilità di contaminazione tra passato, presente e futuro, a partire dalla rielaborazione di immagini già esistenti.

Moira Ricci, artista e fotografa italiana conduce un lavoro di ricerca, inscindibilmente connesso alla sua storia e alla geografia di emozioni e sentimenti che ne attraversano l’esistenza. Si serve di fotografie, video e oggetti d’archivio per indagare il racconto familiare, la casa e il legame originario con la sua terra, la Maremma. È qui che si nutre di memorie del territorio, di cui cura una attenta ricostruzione storiografica generando leggende. Nel rendere visibile il suo lessico famigliare restituisce istanti senza tempo come epicentri narrativi mancati che si aggiungono alla sua storia quasi a volerne modificare il corso.
I suoi lavori hanno ricevuto riconoscimenti nazionali ed internazionali; è di recente pubblicazione il libro “20.12.53 – 10.08.04 “(Corraini Editore) che testimonia il percorso svolto dall’artista tra il 2004 e il 2014 a seguito della morte improvvisa della madre. In questo progetto a lungo termine, Moira ricerca, tra le foto di famiglia, quelle in cui è ritratta la madre in un arco temporale che va dalla sua data di nascita alla sua morte, ricreando una narrazione visiva senza precedenti che sorprende, emoziona e coinvolge l’osservatore nell’esperienza ineluttabile della perdita.

Quando e perché ti sei interessata alla fotografia?
Io sono nata e cresciuta con la fotografia. A casa, mia mamma aveva sempre in mano la macchinetta fotografica oppure la cinepresa con le quali immortalava i primi giorni di scuola miei e di mio fratello oppure le occasioni delle grandi feste che riunivano la famiglia nel nostro podere in Maremma.
La prima volta che ho avuto un vero interesse per la fotografia è stato al liceo artistico, quando il professore di storia dell'arte mi fece vedere il lavoro di Cindy Sherman alla quale, mi disse, assomigliavo.
Mi innamorai così tanto del suo lavoro che decisi poi di proseguire gli studi con la fotografia. Mia madre mi regalò una Yashica FX-2 a pellicola e io cominciai a scattare le foto alle mie compagne di classe. Dopo il liceo, fui presa subito alla Scuola di Fotografia di Milano, il C.F.P. Bauer.

Tu non ti consideri solo una fotografa?
Ho iniziato al liceo artistico con il disegno, la pittura e la scultura, poi sono andata a fare fotografia a Milano, città in cui poi sono rimasta per molto tempo continuando a studiare Multimediale all’Accademia di Brera e video alla Vigorelli. Volevo imparare più mezzi e strumenti possibili proprio per creare delle cose attraverso cui esprimere quello che volevo. Sì, sono una visiva, che utilizza diversi medium. Poi mi considero anche una fotografa di professione, avendo seguito l’indicazione di mia mamma che spingeva me e mio fratello che studiava musica, non solo a praticare l’arte ma soprattutto a farne una professione. Quindi ho studiato anche perché potesse essere un’attività lavorativa, che poi non ho avuto il coraggio di svolgere almeno fino alla sua morte. 

Nei tuoi lavori Da Buio a Buio (2009), Dove il cielo è più vicino (2014 - 2017), Totem (2021) traduci il tuo immaginario in immagine. Cosa raccontano, dopo questi interventi, il cielo e la terra della tua Maremma?
Raccontano la fine di un’epoca. I miei lavori fermano il ricordo di qualcosa che è già accaduto, ne officiano l’addio…. Le storie raccolte in “Da Buio a Buio”, il Lupo Mannaro, la Bambina Cinghiale, l’uomo Sasso e i Gemelli, con cui sono cresciuta, grazie ai racconti di mia madre, sono state dimenticate, soppiantate dalle false verità dei media o dallo scetticismo comune. Probabilmente ne nasceranno altre di leggende perché è insito nell’uomo, come per il racconto della Bambina Cinghiale, dire, ridire, interpretare, e, di bocca in bocca, far sì che un fatto reale, come in una sorta di telefono senza fili, sia arricchito da fantasie popolari. In “Dove il cielo è più vicino” dò voce a un fallimento: il cielo e la terra soffrono per il declino della cultura contadina, scavalcata da imposizioni normative che non tengono più in dovuto conto le leggi della natura, la rotazione delle colture, le fasi lunari, addirittura decretano che la merda dei bovini, una volta concime per i campi, sia oggi inquinante e in quanto tale rifiuto da smaltire con costi esorbitanti per i contadini costretti a ridurre di conseguenza i loro allevamenti!
“Totem” invece è una scultura ispirata a Goldrake, cartone animato cult della fine degli anni ’70, l’eroe che ha segnato la mia infanzia e che aveva la missione di salvare gli umani dal male oscuro. È il suo maglio perforante, alto oltre 5 m, che svetta tra le colline a essere concepito come un vero e proprio simulacro al quale si giunge, dopo un cammino, e nel quale pregare e sperare affinché qualcuno di superiore ci venga a salvare, proprio perché in quanto umani non ce la facciamo più.

Ripensando al carattere immaginifico dei tuoi lavori…mi viene in mente quando, con i tuoi familiari, hai trasformato una Trebbia in una poetica Astronave con cui fuggire verso un’altra dimensione. Di quale cinema ti sei nutrita?
Da ragazzina, quando vivevo ancora a Grosseto, registravo i film che davano a Fuori Orario, su Rai3, di notte fino al mattino. Poi ne vedevo uno dopo l’altro, senza neanche curarmi del titolo. Mi hanno aperto un mondo il regista giapponese Shin’ya Tsukamoto con il film “Tetsuo I” e “Tetsuo II”, insieme a Derek Jarman con il film “The Garden” in cui la poetica commistione di immagini e suoni mi ha spinta ancor più a scegliere di fare arte.
Prediligo il cinema orientale perché sono innamorata del pensiero orientale. Altri riferimenti artistici infatti sono i manga, le anime e la malinconia, la nostalgia e quel tocco di autoironia di cui sono impregnati gli amori impossibili narrati. 
E ancora mi hanno influenzata Kim Ki Duk, regista coreano, autore di “Primavera, Estate, Autunno, Inverno e di nuovo Primavera” e Federico Fellini.

A Lidiput (2003) è un’immagine dal clic lungo il tempo di un film. Da cosa un lavoro siffatto libera la fotografia?
È del 2003 e a quel tempo non sapevo usare ancora bene né Photoshop né la macchina fotografica digitale, non avendola mai avuta. Per realizzarla ho utilizzato un banco ottico perché volevo rappresentare le persone fotografate in spiaggia, a loro insaputa, a grandezza naturale per una larghezza di 9 metri x 2 circa. Poi ho abbandonato questo iniziale progetto perché prima di tutto ero ancora una studentessa e nessuno mi avrebbe prodotto un lavoro così grande e costoso. Penso anche che non ci fosse nemmeno un posto dove esporre 9 metri di foto. Quindi ho stampato le foto, ritagliato le persone e infilato le piccole sagome nella sabbia attorno a me, seppellita sotto la rena con la testa fuori. Immaginavo quelle stesse persone che mi avevano trattato male mentre lavoravo sulla costa romagnola a scattare foto tra caldo, chilometri sotto il sole e confusione come lillipuziani al mio cospetto. Il mio lavoro è concettuale e la sua estetica nasce da sovrastrutture che si incastrano e dialogano, quindi supero lo strumento e me ne servo per quello che mi è necessario realizzare.

In 20.12.53 – 10.08.04 il tuo immaginario sospende il tempo creando una narrazione visiva unica… Ci vuoi raccontare?
Non ho pensato a un'idea di tempo in quel momento. Vedendo mia mamma senza vita dentro la bara aperta in casa, andai a cercare tutte le sue foto. Il dolore era così grande che desideravo soltanto andare dentro le foto di mia mamma perché lì lei era viva. Così ho cominciato a fotografarmi, studiando la luce del momento in cui erano state scattate, ripercorrendo i medesimi luoghi, indossando i vestiti di allora per poi inserirmi in esse. La fotografia ha reso possibile ciò che nella realtà è impossibile: tornare indietro e andare in quel tempo della foto per dirle cosa le sarebbe successo in quel maledetto giorno. Speravo che succedesse davvero ed è stato un modo per superare la mia impotenza e continuare a incontrare mia mamma. Ripensando allo studio de La camera chiara di Roland Barthes c’è un punto in cui si dice che i greci entrano nella morte a ritroso, per accettare la morte di una persona, tornano indietro nella sua vita. 

In questo lavoro (20.12.53 – 10.08.04) quale “istante” pensi di aver restituito?
Nelle cinquanta foto da me selezionate in dieci anni di lavoro tra tutte quelle che avrei voluto finire dove io non ero neanche nata, fermo l'istante in cui spero che mia mamma senta il mio sguardo che è lì a fissarla con insistenza e forza. Così come accade quando si percepisce l’energia di qualcuno che ci guarda da dietro e quindi ci si gira rivolgendogli lo sguardo. Ho creduto che se io avessi continuato a guardarla, prima o poi lei si sarebbe accorta dei miei occhi consapevoli che, nel silenzio intenso di un’istante, avrebbe potuto avvertirla che qualcosa di brutto ci avrebbe divise. È l’istante in cui ho tentato di salvarla con la mia presenza muta e costante. Nel mio volto si legge molta tristezza e tanto dolore, ma anche rabbia perché ciò che sarebbe successo mi avrebbe portato via ingiustamente e prematuramente mia madre.

Emily Dickinson seguiva una regola “Dì tutta la verità, ma dilla obliqua”. Quale verità offre il tuo sguardo?
È la verità di un nuovo presente. È come se mi fossi riappropriata del suo tempo per starle vicina, colmando i sensi di colpa per non esserci stata abbastanza e recuperando il tempo che avevo perso a stare senza di lei. Adesso quel tempo è il presente e il futuro della mia storia con lei e, se non è realtà, poco importa.

E per finire uno degli ultimi lavori Horti Sicci è del 2021, di cosa si tratta?
È ispirato al libro Il condominio di Ballard. Nasce dall’idea del Museo di arte contemporanea di Sofia di affidarmi una scatola per raccontare la vita durante il lockdown. Guardandola in verticale mi ha fatto pensare ad una casa delle bambole in miniatura. Ho quindi utilizzato parte della cassetta come se fosse la facciata di un edificio a vista. Per ogni appartamento ho ricreato scene di vita quotidiana contemporanea, utilizzando la tecnica del collage fotografico mixata a luci e altri materiali. Gli inquilini sono molto piccoli e per questo ho aggiunto una lente d'ingrandimento per osservarne l’intimità domestica.

Moira Ricci è rappresentata dalla Galleria d’arte contemporanea LAVERONICA di Modica.
https://www.gallerialaveronica.it/artists/moira-ricci/

Sara Sigona

Giornalista pubblicista e insegnante, scrivo con la luce e con l’inchiostro sin da bambina. Fonte di ispirazione il viaggio lungo paesi del mondo e paesaggi esistenziali della contemporaneità.

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