Rifugio dal nemico e dai rastrellamenti nazisti per il protagonista, strumento evocativo per l’autore, la casa è la rappresentazione di un luogo simbolico nel romanzo La casa in collina (Einaudi, 1948) di Cesare Pavese (1908-1950), poeta, scrittore, editore, traduttore e critico letterario, personalità di rilievo nella storia della casa editrice Einaudi e intellettuale tra i maggiori del Novecento.
L’ambientazione sullo sfondo della seconda guerra mondiale, nei mesi fino all’armistizio del 1943 e durante la Resistenza, riduce la distanza temporale dall’esperienza personale dello scrittore, che fa raccontare le cronache da testimone a Corrado, professore di Scienze a Torino, ospite di Elvira e della madre in campagna.
La casa in collina è dunque quella delle due donne, l’ubicazione immanente dell’andirivieni quotidiano tra la scuola dove il protagonista insegna e il domicilio sicuro per la notte, al riparo dai bombardamenti sulla città; ed è l’altra in cui è cresciuto con la famiglia prima di allontanarsene per lavorare, un ricordo trascendente fino a divenire ultima meta di fuga.
Quella tra città e campagna - in particolare, le colline predilette di santo Stefano Belbo - tra il luogo di studio e lavoro e quello dell'infanzia e del ritorno, tra civiltà industriale e contadina, è una delle contrapposizioni primitive della scrittura di Pavese, sin dalla pubblicazione di Lavorare stanca (1936), sotto l'influenza di Walt Whitman (tema della tesi di laurea nel 1931) e di Edgar Lee Masters (oggetto del saggio del 1935), più che della poesia crepuscolare. La si ritrova nella lirica d’apertura I mari del Sud, nell'aneddoto del ritorno del cugino al paese dopo vent'anni, nel suo tentativo fallito di portarvi i motori («Dovevo sapere/che qui buoi e persone son tutta una razza», vv.76-77) e nel suo ricorso al dialetto, testimonianza del legame alle origini («Tutto questo mi ha detto e non parla italiano,/ma adopera lento il dialetto, che, come le pietre/di questo stesso colle, è scabro tanto/che vent'anni di idiomi e di oceani diversi/non gliel'hanno scalfito.» vv.17-21). E ancora nella riflessione solitaria di Gella in treno: «Gella è stufa di andare e venire, e tornare la sera/ e non vivere né tra le case né in mezzo alle vigne. / La città la vorrebbe su queste colline, / luminosa, segreta, e non muoversi più». (Gente che non capisce, vv.17-20, in Lavorare stanca).
Le opere successive alla raccolta poetica faranno di quel mondo il luogo del mito, di una stagione serena, il primato del pensiero simbolico sul materialismo, delle forze segrete della Natura su quelle motrici della Storia, mentre il tema del paese ricorrerà nell’opera pavesiana da Paesi tuoi (1941) a La luna e i falò (1949): «Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.».
È la prima traccia dell’autobiografismo che connota il romanzo, pur nelle differenze fortemente ribadite dallo stesso autore, difendendo dai detrattori la sua produzione in prosa e poi anche il personaggio di Corrado, lontano dall’aderire alla Resistenza che infiamma intorno a lui, e dall’assumere responsabilità personali rispetto alla propria vita e alla Storia.
Infatti, tanto nell’ambiente scolastico a Torino, quanto nella locanda delle Fontane in collina - dove è attivo un gruppo di partigiani tra i quali ritrova Cate, una donna del suo passato, madre di Dino, che ne porta il nome e potrebbe esserne figlio – Corrado non assume apertamente una posizione politica, né si espone in termini ideologici, attratto piuttosto dalla curiosità per la compagnia, dall’allegria libera del canto serale, contro le premure di Elvira, che ne attende il rientro, invano speranzosa d’amore. Il posto a lui più congeniale è il bosco, dove vaga con il cane Belbo, riconoscendo nella vegetazione e nelle increspature del terreno la fisionomia del paesaggio d’infanzia; e dove convive con il dubbio sulla paternità di Dino, accanto a lui sui sentieri tra gli alberi, senza affrontarne la soluzione nemmeno più avanti, quando i nazisti arresteranno e deporteranno Cate e il gruppo della locanda, e i due si nasconderanno tra i religiosi di Chieri. Pochi giorni dopo, il ragazzo si farà audace e abbraccerà la causa partigiana, fuggendo nottetempo. Corrado, invece, si confonderà tra gli assistenti agli scolari, fino a quando anche il collegio non sarà più un rifugio sicuro dai rastrellamenti nazisti, e affronterà infine il ritorno verso la casa dei suoi.
L’isolamento della solitudine consente a Corrado di osservare ogni cosa, assistendo alla tragedia della guerra che si consuma intorno, e di leggere tra le righe quella della vita, attraversata dal senso del limite, da colpa e dolore, dall’incapacità di essere parte del flusso dell’esistenza.
È lo stesso Pavese a darne la più esplicita spiegazione, nella dialettica della corrispondenza con il critico letterario Rino del Sasso: «Il personaggio di Corrado, oltre alla viltà davanti all’azione, rappresenta anche l’estremo problema di ogni azione – l’angoscia davanti al mistero. Discutibile sarà l’aver fuso i due motivi in una unica persona (benché non ne sia convinto), non certo – mi pare – averli sentiti come una realtà di oggi» (1°marzo 1950); e ancora: «Volevo rappresentare un esitante, un solitario che, attraverso o malgrado la sua viltà, scopre dei valori o almeno intuisce che ci sono dei valori nuovi (senso della morte, umiltà, comprensione degli altri ecc.). (…). L’arte deve scoprire nuove verità umane, non nuove istituzioni. (…) Incediamo perignes, è chiaro. Ma nessuno ci ha mai promesso che questa strada sarebbe stata comoda – parte del suo fascino è proprio questo, che non è comoda, che va zappata con dedizione e senza nessuna certezza di riuscita.» (20 marzo 1950).
Più dell’arresto e della deportazione, a sconvolgerlo è la tragicità della morte, la vista di un manipolo di fascisti diretti alla Repubblica di Salò, caduti in un’imboscata partigiana, i corpi dilaniati tra il sangue, a bordo di un autocarro: «Una colata di benzina anneriva la strada, ma non era soltanto benzina. Lungo le ruote, davanti alla macchina erano stesi corpi umani, e via via che mi avvicinavo, la benzina arrossava.». La ferocia della guerra e l’orrore della morte impietosa resteranno addosso a Corrado, durante la fuga - attraverso incontri con altri personaggi, passando per le campagne, i torrenti e i boschi - fino alla casa dei suoi, senza mai abbandonarlo, con un soprassalto per «un tronco secco, un nodo d’erba, una schiena di roccia», scambiati per corpi distesi. È un timore senza fine, come senza fine e senza ragione è la guerra, che lascia al suolo vittime su ciascuno dei fronti. «Perché sono morti? Io non saprei cosa rispondere …né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero.»
C’è nell’epilogo la pietà dell’uomo per l’uomo, secondo una riflessione urgente e attuale, che si impone contro la barbarie irrazionale della guerra di ogni epoca - le stragi di civili inermi, la distruzione di case e città, il terrore dei prigionieri, il sacrificio dei soldati, il destino dei profughi, la ferita inferta ai popoli ignari degli interessi dei forti, l’odio per l’identità etnica e l’appartenenza religiosa, ingiustificato e ingiustificabile – e in cui si può rintracciare un’impronta autobiografica, nella comune indagine sull’esistenza da parte del protagonista e dell’autore.
Pavese, nato poeta e vissuto in un tempo che chiedeva agli scrittori impegno ideologico e militanza politica, non fu autenticamente né fascista, né comunista, individuando anzi nella condanna al confino - per il ritrovamento nella sua abitazione di corrispondenza partigiana indirizzata alla fidanzata Tina Pizzardo – la causa originaria di altri mali, concorrenti persino al suo controverso rapporto con le donne, atteso che la Pizzardo in sua assenza si sposò con un altro. Pur non venendo meno ai contatti con amici immersi nella politica e vicini alla casa editrice Einaudi, si accostò a essa senza particolari convinzioni, restandone disinteressato e mantenendo invece la sua dedizione assoluta alla poesia, attraverso un profondo studio sull'uomo e su sé stesso, che Il mestiere di vivere (1952), il diario postumo a cura di Italo Calvino, Natalia Ginzburg e Massimo Mila, insieme alle Lettere (1966), ci consente di ricostruire. «Mettersi a guardare le carte lasciate da Pavese non è stato facile» - racconta Calvino allo scrittore Enrico Falqui in una lettera del 20 settembre 1950, a quasi un mese dal suicidio di Pavese - «ma tanto, tutti i nostri discorsi e pensieri, in qualsiasi direzione li rivolgiamo, tornano al ricordo suo. E quindi vale meglio buttarsi a lavorare su tutto quello che ci ha lasciato per continuare a imparare da lui, come quando era vivo. faremo una collana di sue opere edite e inedite. Moltissime queste ultime (...) e soprattutto il diario Il mestiere di vivere (1935-50), che mi sembra una cosa grandissima, al di là dell'emozione violenta che dà a noi che scopriamo il fondo segreto dei giorni passati con lui - un documento di autocostruzione morale, di ricerca di verità, che può stare alla pari con gli esempi più alti».
Le perplessità su presunte simpatie per Fascismo e repubblichini seguirono, negli anni Novanta, la pubblicazione postuma del Taccuino Segreto, a cura di Lorenzo Mondo, curatore dell'opera di Pavese, che raccontò di avere reperito tra le carte consegnate dalla sorella dello scrittore alcune note «sfasate e compromettenti», consegnandole a Calvino e convenendo con lui «che non fosse opportuno darne notizia», secondo «un tacito patto, inteso a lasciar decantare nel silenzio quel materiale scottante, a proteggere Pavese, in pieno clima di guerra fredda, dalle offese dei contrapposti ideologismi», e comunque trattenendone una copia. In realtà, la lettura più adeguata permane quella di un uomo «impolitico», ossessionato dalla guerra, dai bombardamenti, dalla sofferenza della gente comune, che attendeva con ansia la cessazione delle ostilità, consapevole che «non si poteva uscire dalla guerra così tranquillamente, che l'Italia avrebbe dovuto pagare uno scotto». Secondo Mondo, Pavese volle deliberatamente accantonare quelle note, espungendole dal diario; tuttavia a pronunciare certe frasi del Taccuino Segreto sono alcuni personaggi proprio de La casa in collina, «utilizzato così per scagionarsi, per emendarsi, un atto di contrizione col romanzo».
«Finito il lavoro coi neri, si comincia coi rossi» - dice Giorgi, il soldato divenuto partigiano, nello stupore di Corrado, che colloca la guerra fascista nel passato e chiede chi sia adesso il nemico, quasi la distruzione e la morte non potessero mai avere fine.
E che si trattasse di opinioni e convincimenti impolitici, lo si evince anche da una lettera dello stesso Pavese a Emilio Cecchi del 17 gennaio 1949: «Devo molto ringraziarla, e non soltanto per la recensione di questi giorni. (…) L’inevitabile piano politico su cui la discussione del mio libro sta precipitando, mi fa rilevare la sua discrezione. Vorrei che tutti avessero la sua mano, e non accadesse di vedermi adoperato per dimostrare che ormai tra fascisti e patrioti c’è parità morale.».
A questa voce di denuncia etica e umana, il romanzo aggiunge il fascino dell'ambiguità del protagonista, che ricorre al memoriale di guerra per occultare le proprie colpe - essere scampato per caso all'arresto, non avere assunto una definita posizione politica, né aderito alla Resistenza, non essersi occupato di Dino, senza scoprire se ne è il padre - e cercare nel dolore universale un alibi e un'assoluzione.
Ed è Pavese a spiegare i confini dell'autobiografismo, delle scelte narrative, della genesi del suo protagonista. «Le frasi che tu mi citi ...fanno parte della confessione di un «peccatore», sono la piaga della sua coscienza, e in più d’un caso vengono da lui dette …quasi a cercarsi un alibi» - scrive ad Augusto Monti il 21 gennaio 1950 - «Quel tal Corrado si autodenuncia, si autopunisce proprio per aver vissuto e vivere in un certo modo – e l’autore … sa che la vita consiste in tutt’altro. Del resto, la parabola del racconto va dall’orgogliosa solitudine del protagonista, attraverso l’esempio del semplice sacrificio degli altri e dell’enormità umana degli avvenimenti, alla compunzione e umiliata semplificazione della chiusa, al suo compatire ai morti. Il rovescio di un superuomo. Come puoi accusarmi di aver descritto un rimorso? (…) Perché è questo che non ti passo. Che, in persona dei miei eroi, mi capiti di trovarmi a volte solo e amareggiato …non significa ch’io faccia il superuomo o l’antiuomo.». Ne emerge il tracciato della finzione letteraria e dell’esperienza dello scrittore, che tuttavia quei morti li aveva visti davvero, e all’ignavia di Corrado aveva consegnato l'espressione degli inconfessabili interrogativi di ogni uomo.
Riferimenti bibliografici ___________________________________________________________
Cesare Pavese, La casa in collina, Einaudi 1974
Cesare Pavese, Lavorare stanca, Einaudi 1980
Cesare Pavese, Vita attraverso le lettere, a cura di Lorenzo Mondo, Einaudi 1974
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950 con Il taccuino segreto, prefazione di Nadia Terranova e nota di Lorenzo Mondo, Rizzoli 2021
Cesare Pavese, La luna e i falò, Einaudi 1999
Lorenzo Mondo, Dialogo su Cesare Pavese, documentario a cura della Fondazione Cesare Pavese, intervista con Chiara Fenoglio, 2021 (https://www.youtube.com/watch?v=MYjkau8nihM)
Italo Calvino, Lettere, a cura di Luca Baranelli, Mondadori 2023
Pavese. Prima che il gallo canti – Il Carcere – La casa in collina, a cura di Gabriele Pedullà, Garzanti 2021
Pubblicista, laurea in Lettere e tesi sulla scrittrice Alba De Cespedes, e romana dal primo amore per le sue pagine nelle vie del quartiere Prati, maturato nell'andirivieni tra Roma, Catania e un borgo di mare ragusano. Ho collaborato negli anni con giornali e blog, agenzie di servizi editoriali e riviste letterarie. Credo nella letteratura e nella conoscenza umanistica, nel potere della parola e delle parole.
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