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Casa tra le case

Liliana Sinagra 14 aprile 2024


Nello sfondo di una locandina l’immagine di Don Pino Puglisi, quella di San Giuseppe con in braccio il bambin Gesù e accanto la Vergine Maria, in fondo a sinistra: “Vi invito a condividere con me questa gioia e a pregare per tutte le vocazioni Don Nunzio Pomara”.  Il 12 settembre 2020 presso la cattedrale di Palermo, ha luogo l’ordinazione sacerdotale di un giovane di 37 anni cresciuto a Godrano, un paesino di circa 1000 abitanti della provincia di Palermo. Qualche anno dopo, il 27 novembre 2022, Don Nunzio Pomara fa ingresso nella sua prima parrocchia, proprio a Sciara in provincia di Palermo, un paese più grande due volte e mezzo il suo paese di origine e la cui chiesa con la canonica che lo ospiterà all’interno di un appartamento, è intitolata a Sant’Anna. Lo incontro dopo la messa delle ore 18.30 nell’ufficio della canonica, disponibile, cordiale ha accettato di buon grado la proposta di questa intervista.

Tralasciando il significato della parola “PARROCCHIA” che troviamo sul dizionario, potremmo definirla anche la “casa di Gesù”?

In una visione semplice e popolare, spesso viene indicata la chiesa o la parrocchia, appunto “casa di Gesù”, proprio perché è il luogo in cui trovi il tabernacolo, in cui ti raccogli in preghiera ma il concetto più adeguato è quello di “casa tra le case”, di “casa in mezzo alla comunità” che svolge una funzione anche sociale nel territorio parrocchiale; la chiesa non rappresentata solo dall’edificio di culto cristiano, la chiesa siamo ciascuno di noi e da un punto di vista teologico citiamo Matteo: «Dove due o tre persone sono riunite nel mio nome, la ci sono io ”. La chiesa è qualsiasi incontro, qualsiasi convocazione, deriva dal greco “convocati”, quindi “convocati da Cristo” e può essere vista anche nell’atto di riunirsi per fare un rosario, per recitare una preghiera e quindi dove ci sono tre battezzati là c’è chiesa.

Se dovesse spiegare ad un extraterrestre ed in pochissimo tempo chi è “Gesù”, cosa le direbbe?
Don Nunzio sorridendo risponde così:
Più che spiegarlo ad un extraterreste, visto che non credo che esistano, lo spiegherei a chi non lo conosce! Gesù da un punto di vista storico, è l’uomo vissuto 2000 anni fa che ha annunciato quel messaggio di speranza, di pace e di amore, che ha donato la vita morendo in croce e che è risorto. Gesù ci viene a portare questo messaggio di speranza cristiana: vivere avendo come riferimento il grande comandamento dell’amore, amare Dio e il prossimo, riconoscere nell’altro la presenza stessa di Dio. Così come io chiedo e invoco il perdono per i miei peccati e per le mie fragilità, anche l’altro che mi è difficile accettare, perché magari si è comportato male con me, è perdonato e amato dal Signore e quindi lo devo accettare in quanto tale! Questa è la parte più difficile del vivere da cristiano, però ci si può riuscire: per le mie fragilità io chiedo perdono al Signore e lui me le perdona. Anche l’altro ha le sue fragilità più o meno di me, anche lui è perdonato, anche lui è costato il sacrificio di Cristo sulla croce! Questo è il nostro vivere da cristiani e seguire il messaggio del vangelo, poi tutte le altre declinazioni servono a mettere in pratica questo insegnamento.

Che differenza c’è tra la chiesa dei cristiani cattolici e un luogo di culto di altra religione?
Non c’è differenza, perché la chiesa è anche l’edificio dove una comunità si riunisce per pregare in nome della propria fede, la sinagoga per gli ebrei, la moschea, luogo sacro per i musulmani, il tempio pagano dove greci o romani si riunivano per onorare le proprie divinità e secondo questa accezione non c’è differenza, per noi cattolici è anche quel luogo sacro dove troviamo la presenza concreta del Signore e allo stesso modo gli altri sono luoghi degni di rispetto secondo il principio dell’amare l’altro.

In questo preciso momento storico, in cui i valori e l’umanità sono in decadenza ed in cui si rincorre una felicità basata “sul possedere” e “sull’apparire”, cosa può fare il parroco per la propria comunità al fine di condurla sulla retta via?
Questa è la sfida per ogni cristiano, per ogni battezzato, al di là del compito e della funzione che abbiamo all’interno della chiesa, combattere la mentalità del tutto e subito, della ricerca frenetica, del possedere, dell’avere, come se più hai e più sei felice, più sei importante, più allora hai successo nella vita. Per noi cristiani è diverso, la felicità vera è quella basata sul saper amare, saper perdonare, saper andare oltre, sapere che c’è qualcuno su cui poter contare e che nel momento della difficoltà è possibile trovare un fratello che ti dica: “Dai andiamo ce la facciamo!”. Sappiamo che difronte alla sofferenza e alle malattie non sono i soldi a poterci salvare, quando moriamo lasciamo tutto su questa terra, ciò che resta di noi è il nostro operato! Se avremo sempre parole cattive per tutti, la critica pronta o saremo acidi, a cosa servirà? A farci dire quando avremo girato le spalle: “Oh finalmente!”, oppure vivendo solo per arricchirsi e lasciando una grossa eredità, a cosa servirà se in vita non ci avranno mai donato un sorriso o una carezza?  Non pensiamo a tutto ciò, perché questa società ci fa credere che se abbiamo 10.000 followers su TikTok siamo amati, no, non è così, non siamo amati, siamo solo visualizzati! L’amore è altro, vale di più quell’abbraccio, quella carezza, di tutte quelle faccine, di tanti cuoricini, di migliaia di like, messi su Facebook, Instagram ……

Nel suo percorso di fede, che ruolo hanno avuto la chiesa in cui è cresciuto e i parroci che ha incontrato? Mi può raccontare un aneddoto?
Io sono cresciuto nella mia parrocchia a Godrano, mio nonno Salvatore che mi portava sempre con lui a messa. Quando avevo quattro anni, sono nati i miei due fratelli gemelli, perciò essendo anch’io piccolino, i miei nonni da Mezzojuso, si sono trasferiti per un lungo periodo a vivere da noi per aiutare mia madre. Mio nonno, specie di estate, frequentava un saloncino che si trovava adiacente la parrocchia che si chiamava “U sfasciu”!

Un nome che non prometteva nulla di buono!!!!
Era un semplice ritrovo in cui gli anziani si riunivano per giocare a carte e a chiacchierare; io andavo con lui e ricordo che all’orario, appena suonava la campana della messa quotidiana, mio nonno interrompeva la sua partita per andare in chiesa. Ogni tanto invitava gli altri anziani ad andare a messa con lui, ma difficilmente qualcuno lo seguiva! Era un vero e proprio rito giornaliero. Anche le preghiere me le ha insegnate mio nonno, prima di andare a letto recitavamo insieme l’Ave Maria e il Padre Nostro. Devo il mio cammino di fede soprattutto a nonno Salvatore, mi ha trasmesso lui questo legame con Cristo. Per quanto concerne la figura del parroco, posso dire che è stato il periodo della mia adolescenza a segnarmi, proprio in quella fase critica della crescita dell’individuo in cui ti fai delle domande, ti interroghi, riesci a prendere consapevolezza. Da bambino era mio nonno a portarmi in chiesa, crescendo ero io, frequentando volutamente il gruppo giovani della parrocchia, che decidevo di andarci ogni settimana, ritrovandomi con gli altri anche al di fuori degli incontri, magari semplicemente per mangiare una pizza o vedere un film nel salone parrocchiale. La parrocchia era un luogo di ritrovo in cui da amici passavano il nostro tempo, avevamo anche il biliardo e il parroco era felice di vederci riuniti in quegli spazi anche al di fuori degli incontri spirituali. La fase adolescenziale per me è stata difficile, mi ponevo tante domande, gli altri vedevano in me quel barlume di vocazione, che io non volevo vedere, mi dicevo: “Ma che fa scherziamo? A sedici o diciassette anni non si può parlare di vocazione!!!!”. E così mi sono allontanato.

A che età è entrato in seminario?
Vi sono entrato grande, a 30 anni, perché mi ero allontanato! Sì, sono scappato dalla parrocchiacon la scusa degli studi universitari, mi sono trasferito a Palermo per studiare Servizio Sociale. Avevo deciso di diventare un assistente sociale e con il senno di poi ho riconosciuto che comunque avevo scelto una professione che mi metteva al servizio degli altri, un po' come quello che fa un sacerdote; avevo scelto un lavoro per il quale mi sarei dovuto occupare a trecentosessanta gradi dell’altro!  Ricordo che questa stessa scelta l’aveva fatta anche una mia compagna. Lei si era iscritta alla Lumsa Università – Santa Silvia, dove non vi era numero chiuso per accedervi, ma io non ne volli sapere di seguirla, solo perché aveva il nome di una santa e non ne volevo proprio sentire di santi! Quindi decisi di provare ad entrare all’università statale, consapevole che ci fossero pochi posti e che sarei potuto restare fuori. Il corso apparteneva alla facoltà di Lettere e Filosofia; la graduatoria era unica per le sedi di Palermo, Trapani ed Agrigento ed essendo risultato trentesimo potei restare a Palermo. Nonostante studiassi ciò che volevo, c’era qualcosa che mi mancava. Io mi ero allontanato per paura, paura di prendere una decisione seria e concreta.

Quando ha ricevuto “la chiamata”, l’ha subito comunicato alla sua famiglia? Come è stata accolta la notizia dai suoi genitori? Ha avuto dubbi difronte alle rinunce che la vita sacerdotale le impone?
La paura più grande, soprattutto da adolescente diciottenne, era causata dal pensiero delle rinunce, dall’idea della vita che ti viene chiesta come prete, il rinunciare ad avere una famiglia, al matrimonio, ai figli e poi c’è quella visione del prete che non può nulla, che non può divertirsi! Che poi c’è da chiedersi che cos’è il divertimento??? Questi dubbi mi hanno portato ad allontanarmi. Io mi sono detto: “No, non è possibile!” Io sono cresciuto all’interno della parrocchia. Giocavo con i miei cugini e gli altri bambini e d’estate organizzavo le processioni per le vie del quartiere, con una cassetta della frutta, dei bastoni di scope, un’immaginetta, i fiori che rubavo nei vasi davanti la casa delle vicine e facevo persino la raccolta delle donazioni porta a porta, come vedevo fare alle deputazioni dei santi; i pochi spiccioli li spendevo per fare la festa, comprando al bar il gelato e le patatine! Ogni tanto le vicine per quei fiori rubati ci insultavano, per poi farsi una bella risata!
All’università ero infelice, c’era qualcosa che mi mancava. Piano piano avevo ripreso a partecipare alla messa e a fare un cammino cristiano. Il trasferimento del parroco del mio paese, mi sconvolse, provavo la sensazione di averlo perso, anche se per due tre anni mi ero allontanato, piano piano mi ero avvicinato, tornavo in paese e lo vedevo, lo ritrovavo. Era per me un punto di riferimento che stava crollando.
Dirlo alla mia famiglia è stato semplice, è stato più difficile dirlo a me stesso, ammetterlo! Ammettere che non ero felice, c’era sempre quell’insoddisfazione; ricordo che l’ultimo anno, prima di lasciare tutto ed entrare in seminario, i miei amici allarmati mi guardavano e mi chiedevano: “Ma che hai?” Notavano quella mia insoddisfazione. Ad un certo punto mi sono fatto coraggio, sono andato a trovare il mio ex parroco che era stato trasferito da un annetto e mi sono aperto. Da li in poi l’incoraggiamento, le rassicurazioni, mi ha aiutato a far cadere le preoccupazioni più grandi, l’idea di lasciare tutto! Che cos’era tutto? Cosa lasciavo? Nella mia visione, oggi decidevo voglio fare il prete e domani sarei stato ordinato sacerdote senza poter tornare indietro. Lui mi fece comprendere che c’era un cammino davanti, faticoso e duro e mi disse: “Se non dovesse essere la tua strada lo capirai subito!”. Ci vollero dieci anni, il cammino in seminario è impegnativo, mi sono fermato un altro anno, la scelta non è immediata, difficile e faticosa, soprattutto all’inizio. Intrapreso il cammino di discernimento, ho compreso che era quello che il Signore aveva pensato per me da sempre.  La chiamata la senti quando sei felice, quando non hai più bisogno e non vedi che quelle sono rinunce, quelle che umanamente credi siano rinunce, non le vedi più e ti rendi conto che il bene più grande ti fa superare quelle gioie, anche quella di essere padre e di avere una compagna accanto! Il Signore ti dà la forza di affrontare tutto!
La mia famiglia quasi non ci credeva, aveva perso ogni speranza, quando mi ero allontano hanno pensato: non era strada per lui! Mi ricordo che quando gliel’ho detto era settembre, c’era freddo a Godrano ed eravamo tutti rintanati in casa e ho esordito con: “Vi devo dire una cosa, la settimana prossima entrerò in seminario!” Mia madre sognava questo figlio prete, nonostante fossi il primo figlio e credo che perché questo accadesse mio nonno abbia pregato tanto!


Liliana Sinagra

Liliana Sinagra, classe '78, libera professionista nel campo dei servizi tecnici nella vita lavorativa, fin da ragazzina scopre la sua passione per il teatro in una compagnia amatoriale e nel tempo frequenta una scuola triennale di teatro contemporaneo presso il Teatro Zeta di Termini Imerese (Pa). Con all'Associazione Culturale Kairòs di Sciara (Pa) cura la regia di commedie dialettali portate in scena dagli adolescenti del proprio paese. Curatrice degli eventi del Festival del Torto Nella Valle dei Racconti fin dal 2019, nel 2021 viene nominata vice presidente dell'Associazione Culturale Nella Valle dei Racconti che si occupa dell'organizzazione dell'omonimo festival e della promozione culturale del territorio della valle del fiume Torto. Sensibile alle tematiche sociali, ha ideato vari progetti artistici, tra cui un video contro il femminicidio realizzato con gli attori del Teatro Zeta e la fotografa Olga Flaccomio. Coordinatrice delle ultime due edizioni del Dedalo Festival di Caltabellotta (AG) accanto al direttore artistico Ezio Noto.

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