Della rivoluzione culturale introdotta dall'avvento della televisione, molto si è parlato nella ricorrenza dei settanta anni della RAI, che il 3 gennaio del 1954 iniziava le sue trasmissioni, fino allora soltanto radiofoniche. Sono state scomodate le categorie concettuali di comunicazione, linguistica, storia e sociologia per circoscrivere la valenza della civiltà dell'immagine, l'evoluzione dall'homo sapiens all'homo videns, e distinguere la diversa esperienza della realtà da parte dello spettatore, tra elaborazione mentale e impatto visivo. E tutto questo senza dimenticare il ruolo da protagonista nel processo di unificazione nazionale attraverso il ricorso alla lingua italiana, impostasi in tal modo sulle parlate locali, la condivisione di modelli sociali e costumi sul territorio e la novità della possibilità di raffrontare le diverse realtà del Nord e del Sud del Paese.
Poi la compagna delle famiglie italiane cresce, e ai programmi in studio si contrappone il fascino affabulatorio delle storie raccontate dal cinema, tra soggetti originali e attinti alla letteratura. «Partita con ambizioni pedagogiche di informare, istruire, divertire, la televisione realizza di essere il più formidabile strumento di intrattenimento a disposizione della società» - spiega Aldo Grasso, introducendo l'apertura della Rai da un lato alla futura promozione dei film d'autore, anche per «rafforzare i rapporti con il mondo del cinema scrollandosi di dosso quel certo complesso di inferiorità»; dall'altro allo «sceneggiato filmato, che ... usa le strutture e i riferimenti linguistici del cinema, ma grazie al suo impianto narrativo e serial viene assunto quale erede del telefilm classico, dello sceneggiato italiano e del feuilleton per immagini». La rivoluzione dunque prosegue con numerose produzioni e, fino agli anni Settanta, porterà nelle case degli italiani i classici dell'epica e della letteratura italiana e straniera, proprio attraverso la ricca stagione dello sceneggiato televisivo.
Nel 1972, il programma dell'anno fu Pinocchio, le avventure di un burattino con la regia di Luigi Comencini, che ne firmò la sceneggiatura insieme a Suso Cecchi d'Amico. In sei puntate per la tv, l'edizione per il piccolo schermo voleva raccontare il celebre romanzo di Carlo Collodi (1826-1890), pubblicato in volume nel 1883 e già oggetto di trasposizione al cinema. In Italia, c'erano già stati Pinocchio di Giulio Antamoro (1911), Le avventure di Pinocchio di Giannetto Guardone (1947), con sceneggiatura di Giancarlo Fusco, la gag della marionetta in Totò a colori di Steno (1952) e la versione teatrale di Carmelo Bene (1961), seguita dalla riscrittura prima per il cinema (1966), interrotta dalla scomparsa di Totò, per il ruolo di Geppetto, poi per la televisione (in onda solo nel 1999). All'estero, il cartone animato di Walt Disney (1940), pur risentendo dei venti della seconda guerra mondiale, aveva dato popolarità al burattino e ottenuto il premio Oscar per la migliore colonna sonora, tanto che la canzone When You Wish Upon a Star diventòl'inno ufficiale Disney. Con poche eccezioni - che torneranno nelle riscritture più recenti di Roberto Benigni e Vincenzo Cerami (2002), Matteo Garrone (2019) Robert Zemeckis (2022) e Guillermo del Toro (2022) - le trasposizioni mantenevano generalmente il messaggio etico del romanzo di formazione, subordinando alla buona condotta l'evoluzione del protagonista da burattino a bambino. La lettura parallela del testo ha consentito di isolare le funzioni archetipiche (il male, il bene, la rabbia, la coscienza, la saggezza, il perdono) del percorso evolutivo, interpretate dai personaggi insieme ai ruoli vicariali paterni. Infatti, all'assenza di autorevolezza di Geppetto, genitore dell'affettività e non dell'esempio, e comunque alla rappresentazione della disobbedienza cui Pinocchio rimedia nell'epilogo, suppliscono volta per volta altre figure antagoniste: così per Mangiafuoco, che incarna il rigore, da cui Pinocchio difende Arlecchino dall'essere bruciato; così per il contadino che lo mette di guardia, dopo avere rubato le pere, e per il domatore del circo, dopo la trasformazione in asino, entrambi referenti del principio rieducativo; così, infine, per il Giudice che lo fa rinchiudere in prigione, punendone la credulona dabbenaggine nei confronti del Gatto e la Volpe, che lo avevano convinto a sotterrare gli zecchini nel campo, e la scelta accidiosa di nascondere i «talenti» anziché investirli.
Certo è che la memoria collettiva custodisce l'edizione di Luigi Comencini (1916-2007) come una pagina di storia umana, sospesa tra il realismo dell'ambientazione e la fantasia della favola. Il regista volle attingere ai ricordi d'infanzia, con la fame e la povertà sullo sfondo, a descrivere una certa pagina nazionale: nonostante l'ambientazione toscana, lo sceneggiato fu girato nel Lazio, in provincia di Viterbo, tra Tarquinia, Farnese, Ischia di Castri, Civita Castellana e Calcata; e in provincia di Roma, ad Anguillara Sabazia, Sant'Oreste e presso il porto di Civitavecchia. E, oltre alla memorabile prova degli attori, il motore dell'azione è tutto nel protagonista, la cui corsa ha inizio non appena Geppetto ne scolpisce i piedi. «Noi volevamo evidenziare il rapporto padre-figlio, e Nino Manfredi centrò in pieno quell’esigenza, un vecchio padre iroso e rassegnato, ma che vive un amore sconfinato per il su’ figliolo» - raccontava Suso Cecchi d'Amico in un'intervista del 2002.
Quel moto perpetuo, quella corsa fuggitiva, quella irrequietezza costituivano il limite della trasposizione televisiva, attesa la difficoltà di mettere in movimento un burattino. A tale proposito, le cronache raccontano anche della committenza a Carlo Rambaldi, il futuro papà di E.T., autore del prototipo di un automa in legno, e della causa intentata contro il regista, non appena si rese conto della riproduzione del suo modello. Certamente quella di Comencini non poteva che essere una scelta difficile, e l'inversione cronologica del bambino sul burattino consentì il superamento della criticità, integrando alla sua raffigurazione la gamma emotiva dei sentimenti genuini dell'infanzia, che lo stesso aveva approfondito con passione antropologica nel cortometraggio Bambini in città (1946) e nel documentario a puntate I bambini e noi (1970-78).
«È facile dar vita a un burattino in un libro. Ognuno leggendo, se lo vede a suo modo, con la fantasia» - spiegava il regista in un'intervista del 1972 - «Ma in un racconto per immagini è difficile rendere umano e credibile un burattino, per quanto sia perfetta la sua meccanica. Perciò si è capovolto il meccanismo di Collodi: mentre nel libro Pinocchio vive la sua vita di burattino nella speranza di potere un giorno diventare bambino, nel film avviene il contrario. Pinocchio diventa burattino soltanto tre volte, per punizione, e una quarta viene trasformato in ciuco perché ne ha fatta una più grossa del solito. Rimane, dunque, il principio repressivo ma viene chiaramente condannato. Almeno spero che risulti chiaro. Continuano a domandarmi perché ho deciso di fare Pinocchio e se il mio è un Pinocchio tradizionale o moderno. Alla prima domanda posso rispondere che è un'idea del 1963, mi venne mentre stavo girando in Toscana La ragazza di Bube. Del libro, letto nell'infanzia, conservavo un ricordo vivo, ma poi, rileggendolo da adulto, mi accorsi che era un ricordo inesatto, parziale: il libro è diverso dal ricordo che m'era rimasto della mia lettura infantile. In questo ricordo sbagliato, c'è la risposta alla seconda domanda. Quel che si vede sul teleschermo è il «mio» Pinocchio, fedele non tanto al libro quanto al ricordo che ne ho».
Lo sceneggiato riscosse grande successo, con sedici milioni e mezzo di telespettatori in media per ciascuna puntata, e le scelte artistiche non mancarono di suscitare osservazioni critiche circa il tradimento del testo. Tuttavia l'edizione di Comencini resta una delle produzioni cinematografiche più interessanti per la tv, unendo l'autobiografismo nostalgico del regista al proposito di smontare il didascalismo della fiaba, attraverso il disincanto della realtà.
Riferimenti bibliografici
• Aldo Grasso, Storia della televisione italiana, prefazione di Beniamino Placido, Garzanti 1992
• Giovanni Sartori, Homo videns, Editori Laterza 2005
• Carlo Collodi, Le avventure di Pinocchio, Editrice La Scuola, Brescia 1967
• Suso Cecchi d'Amico, Storie di cinema (e d'altro) raccontate a Margherita d'Amico, Garzanti 1996
• Pier Paolo Argiolas, Riconfigurazione di spazi-soglia. Sulle metamorfosi di Pinocchio, tra Collodi e Comencini, Between, I.1 (2011)
• Vittorio Zincone, Intervista a Carlo Rambaldi in Magazine - aprile 2008 (vittoriozincone.it)
Pubblicista, laurea in Lettere e tesi sulla scrittrice Alba De Cespedes, e romana dal primo amore per le sue pagine nelle vie del quartiere Prati, maturato nell'andirivieni tra Roma, Catania e un borgo di mare ragusano. Ho collaborato negli anni con giornali e blog, agenzie di servizi editoriali e riviste letterarie. Credo nella letteratura e nella conoscenza umanistica, nel potere della parola e delle parole.
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