Nei periodi di vacanza dai nonni, la tv era un’eco nella lattigine serale, sfiorava le cassine aperte, sorvolava canottiere spanciate sulle sedie, e sorprendeva vestine affacciate a prendere aria ferma dai balconi. Proveniva da cortili, da patii condivisi, da barbagli nei porticati, dilagava da carruggi nella corrente, e potevamo percorrere basole e carretterie seguendo la voce di Mike Bongiorno, Corrado, Mina o Baudo, oppure Vittorio Salvetti, per ritrovarci seduti a terra tra file di sedie aperte, e una qualche mano nodosa o sapiente ci porgeva qualcosa da mangiare.
Ricordo la prima volta, mio padre annusava l’aria come un randagio della musica, lo tenevo per mano mentre da imprecisati tubi catodici si diffondevano le note della canzone che vinse il “Disco per l’estate” – era il 1975 – mio padre la mormorava spesso, e figurarsi poi dopo la vittoria. Era di un tale Guardiano del Faro, al secolo Federico Monti Arduini, smanettava le tastiere allo stesso modo in cui mia nonna approntava il biancomangiare per noi nipoti prima del pranzo della domenica.
Non sono riuscito mai più a trovare un momento simile, di condivisione umana senza età o genere, di accoglienza e di ospitalità, di poesia e di ardente attesa, in tutta la mia vita, legata o meno all’emittenza.
Poi si sa, la tv entrò nei circoli di paese, nelle case di città, divenne uno status symbol, si fece contenitore e imbonitore, richiamò alla mente Orson Welles e Orwell, si tramutò in nuovo focolare domestico, di intrattenimento, di informazione, Flaiano e Pasolini erano i precursori a demonizzarne l’utilizzo, Carmelo Bene la derise in diretta da un salotto e pure Frank Zappa ci intubò lo scarico di un cesso.
Dalle valvole in bianco e nero si passò all’evoluzione del sistema Palcolor, che l’erba dei campi di calcio sembrava profumare davvero come i giardini di Frangello, Ossena e Garita durante le scampagnate di Pasquetta.
Quando l’Italia di Bearzot giocò la finalina degli europei di calcio contro la allora Cecoslovacchia, dalle ringhiere del cortile Barbarino si improvvisò un sistema di cavi e prolunghe che sembrava che Spiderman o Tarzan dovessero passare di lì, durante la partita. Eravamo una trentina di persone, in prevalenza ragazzini, e quando Graziani pareggiò con la solita incornata il vantaggio ceko, mandandoci ai rigori, la nostra gioia si mescolò a tutte quante le altre gioie frammentate nei vari angoli del paese, sotto le smorfie fosforescenti di una luna poggiata sulle tegole. Quando poi, dopo una interminabile sequenza, Collovati si fece parare il rigore dal portiere spilungone col cognome malpronunciabile, ci ritrovammo a nidiate intere nelle varie piazze, a vendicare quella sconfitta nell’unico modo che conoscevamo: sognando calcio.
Che, in fondo, era l’unica cosa che davvero riuscissimo a fare.
Laddove non può il tempo, o la realtà, riesce la fantasia. Nei bambini piccoli e grandi funziona così. Anche adesso.
A mare, non uso tivvù. Libri, musica, le passeggiate sulla spiaggia, il relax in veranda, il mio canale virtuale di quotidiani dal mondo. La sdraio, la luna di sempre ma adesso sempre più sudata, le chiacchiere a casa o tra i pochi amici. E la scrittura. Ma anche quando non sono in villeggiatura è così.
La televisione la guardo, nel senso che ogni tanto alzo gli occhi dalla tastiera e la vedo che è lì, sul ripiano accanto al frigo. Spenta.
E dire che oggi si può avere tutto, persino la cultura, in qualunque momento e a portata di un click, di Alexa, di domotica, basta pagare un canone o un rid o un sdd permanente, e poi il digitale on demand satellitare terracqueo si attiva e mi fa ammirare il rutto di un calciatore mentre firma autografi dalla sua Porsche Carrera personalizzata, oppure l’autotune tatuato di Ko-Libry FZ dal festival della cicoria di Regalgioffoli, in diretta da “Sing Song Vip”.
E io che deliravo per la Bertè a colori al Festivalbar, per l’itinerante Cantagiro, per Bud Spencer & Terence Hill, e per l’aulica raucedine di Ciotti in collegamento dall’Olimpico per “Tutto il calcio minuto per minuto”. Bisognava attendere settimane, stagioni, anni, per rivedere Supergulp, l’ombelico della Carrà, i Pooh in trasmissione, il Toro nelle coppe europee.
Oggi con un telecomando hai tutto il niente possibile, subito servito.
Una volta, il telecomando ero io.
Giuseppe Cusumano è nato nel 1968 in un paesino del Polesine che oggi non esiste più, da genitori etnei di Militello in Val di Catania. Vive a Ragusa da oltre 40 anni e scrive quasi da sempre, da mancino corretto: ama la musica, nuota e si diletta di fotografia, ha praticato calcio e arti marziali, si nutre di libri, di natura e di umanità.
Risulta curioso, poco ortodosso, distrattamente attento, dotato di ottima memoria - e anche per questo dicono soffra di ‘retrotopia’.
Di professione Malaùssene, da nove anni coordina un Progetto di volontariato (nato in Ambasciata e radicato presso la missione di Kitanewa) per la costruzione di scuole di ogni ordine e grado nella regione di Iringa, in Tanzania, e continua a farsi correggere i compiti dalla sua prof di lettere.
Ha pubblicato diversi racconti e articoli, un diario di viaggio africano (Quaderni tanzani, OperaIncerta Editore), un romanzo (La terza banca, La Zisa Ed., recensito su Repubblica), e incredibilmente una raccolta di poesie (Minimalia, Libro Italiano World Ed.).
Saltuariamente ha scritto su un blog, ma non è cosa sua.
In compenso, a breve pubblicherà il suo nuovo romanzo, ambientato in Africa, dal titolo Agli elefanti invece sì, editore cercasi.
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