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Maestra televisione

Sara Sigona 14 ottobre 2024


Considerata sin dal suo esordio la signora del salotto, la televisione ha saputo incuriosire, informare, intrattenere generazioni di spettatori, aprendo un vasto mondo chiuso in una semplice scatoletta. Oggi, con la sua evoluzione tecnologica, la TV è la regina della nostra quotidianità: dalla tv lineare a quella on demand, dalle emittenti pubbliche a quelle private, è accessibile ovunque anche su smartphone e su tablet. Una vera e propria rivoluzione che ha cambiato il nostro modo di vivere ed interagire con il mondo, interno ed esterno a noi. La TV si afferma come una potenza culturale, capace di influenzare le opinioni e plasmare il nostro immaginario attraverso i suoi contenuti. Per approfondire questi temi, in un confronto tra ieri e oggi, abbiamo il piacere di parlarne con la dottoressa Giovanna Triberio, psicoterapeuta e supervisore della Gestalt, nonché psicologa scolastica con oltre trent’anni di esperienza. Con grande professionalità e arguta sensibilità, ci guiderà nella comprensione dell’impatto psicologico e sociale della televisione sulla vita di adulti e di bambini.

Come percepisce l’evoluzione della televisione nell’arco della tua attività professionale?

Per comprendere appieno il senso di questa domanda e dare una restituzione quanto più possibile corretta e soprattutto comprensibile, devo tracciare una “linea del tempo” che mi permetta di contestualizzare le mie considerazioni. Se mi fermo a ricordare, riferendomi alla mia esperienza trentennale di psicologa scolastica, cosa i bambini riferivano della loro conoscenza dei programmi televisivi, mi vengono in mente racconti di personaggi ancora in qualche modo protagonisti e portatori di una idealizzazione. Erano eroi, eroine, simboli di bellezza, di forza, portatori e portatrici di bontà e felicità, grazie ai quali coltivare proiezioni di un immaginario comunque positivo. Ricordo che per andare di pari passo ai bambini/e ragazzini/e con cui avevo colloqui a scuola, dovevo tenermi aggiornata sulle varie storie animate che venivano trasmesse dalle tv in quel periodo.
Andando avanti su questa ideale “linea del tempo”, la realizzazione di personaggi e storie ha avuto una evoluzione tematica più complessa, sicuramente aderente ad una visione della realtà anch’essa più complessa e rispondente a sollecitazioni molto diversificate rispetto ai periodi precedenti. Faccio solo un esempio: nel settembre del 2000 andò in onda il reality “Grande Fratello”. Preadolescenti e adolescenti di quegli anni sentirono una grande attrazione per quella tipologia di programma, in Italia pressoché sconosciuto. Bene, il successo fu tale, soprattutto in termini di audience, grazie proprio ai ragazzini e alle ragazzine che giornalmente seguivano le vicende della “casa”, facendole diventare motivo e contenuti di confronto e discussione. In quel periodo alcuni degli alunni e delle alunne mi chiesero un colloquio perché emarginati dai compagni e dalle compagne di classe in quanto non seguivano il programma sia perché non piaceva loro, sia perché i genitori ne coglievano la poca sostanza culturale e significativa e scoraggiavano i figli a seguirlo. Si comprende, dunque, come un programma televisivo ponesse le basi per un processo di esclusione o di inclusione nel gruppo dei pari qualunque fosse la motivazione su cui tale esclusione o inclusione si basassero.   

La televisione di ieri era pensata con un approccio educativo: i programmi divulgativi, i documentari, i cartoni o le serie avevano precisi messaggi morali…

Indubbiamente l’approccio educativo è cambiato, la modalità e le modalità con cui si accompagna la crescita dei bambini risentono dei cambiamenti culturali, risentono dello stile con cui i genitori hanno cura di loro stessi e poi dei loro figli, risentono delle maggiori insicurezze che purtroppo sono presenti nei loro comportamenti e nei loro atteggiamenti. Questo ground genitoriale non facilita la mediazione di contenuti e immagini trasmessi dalle reti televisive. In altre parole, un bambino/a o un/una ragazzino/a può assistere a scene, dialoghi, trasmissioni che esplicitano contenuti o immagini a loro non adatte, perché ad esempio precoci rispetto alla loro età. Il genitore, sereno e consapevole, adotterà una comunicazione adeguata, che non consisterà in una spiegazione a tutti i costi (anche spiegare a volte è una soluzione che tende alla precocizzazione), bensì terrà conto di quanto il figlio, invitato a farlo, riferirà di ciò che ha visto e ascoltato e il genitore, accogliendo quanto verrà esplicitato, lo aiuterà a riformulare e chiarire pensieri e considerazioni. Non è criminalizzando programmi, serie, film animati che si dà una lettura corretta del modo/tempo di “stare” davanti allo schermo tv. La lettura corretta scaturisce dalla capacità del genitore di coinvolgersi nell’interesse che un programma suscita nei figli, sia che siano bambini che ragazzi che adolescenti. Chiedere ai propri figli cosa guardano, perché per loro sono così interessanti, lasciarsi contagiare dalla curiosità, sostenendo con calore e intelligenza anche l’atteggiamento oppositivo del figlio che tende a sentire la sua privacy violata, e far nascere un confronto, sempre adeguato all’età del figlio, risultano essere la carta vincente che fa andare oltre i divieti, le punizioni, i rimproveri o, al contrario, l’indifferenza, l’atteggiamento di “finta ignoranza” (“…tanto non ci capisco niente…”) o ancor peggio il giudizio privo di rispetto e fondamento.

Crede che l’attuale competizione per lo share e la velocità dei contenuti televisivi di oggi abbiano delle conseguenze sullo sviluppo dell’attenzione e della capacità di concentrazione nei bambini? Se si, in quale modo?

Questa domanda coglie un aspetto determinante e fortemente significativo. La capacità di attenzione e concentrazione, che si va perfezionando e completando con l’età e con i corretti e adeguati metodi educativi e di apprendimento, è sicuramente facilmente condizionabile e risente senza dubbio di fattori come il contesto familiare e scolastico, le sollecitazioni provenienti da ambienti esterni alla scuola e alla famiglia, lo sviluppo psicoaffettivo, le eventuali manifestazioni di neurodiversità, le componenti di natura cognitiva. Tutto questo, a mio avviso, è alla base di un armonioso sviluppo, e poi consolidamento, della capacità di attenzione e di concentrazione. Rimando alla lettura delle tante ricerche fatte sull’argomento. Qui mi fermo su alcuni concetti. Sappiamo che le conoscenze si consolidano e si rafforzano insieme alle emozioni e queste hanno una diretta influenza su importanti processi cognitivi come la memoria, la concentrazione, l’attenzione, la comprensione. Se il bambino è sostenuto nella sua naturale curiosità e nel suo interesse, impara di più e soprattutto meglio, sviluppa le sue capacità rendendole risorse, acquisisce quegli strumenti che rendono il suo stare nel mondo adeguato e soprattutto finalizzato al meglio. I palinsesti televisivi, creati per l’infanzia, hanno nei loro obiettivi generici il raggiungimento di qualità intellettive innegabili. Perché allora ci si pone la domanda di eventuali conseguenze negative sullo sviluppo delle capacità di concentrazione e attenzione? A mio avviso semplicemente per come viene distorto l’uso dei programmi tv, ridotti spessissimo al ruolo di baby sitter, di calmanti, di dissuasori. Questa “trasformazione” attribuisce al programma di turno un compito che non compete ad esso, facendo perdere tutte le proprietà che invece agevolano e stimolano la quota di intelligenza, innata, di ogni bambino.   

Un tempo la televisione generava momenti di unione familiare: si guardavano insieme i film o altri programmi che favorivano il dialogo e la condivisione di esperienze. Oggi spesso, grazie alle piattaforme on demand, si guarda la televisione da soli, anche i bambini sui propri tablet o sulle tv in camera, già in tenera età. Cosa ne pensa?

Il pensiero di un bambino o bambina che guarda programmi televisivi nella sua stanzetta da solo/a mi induce un senso di profonda tristezza. Più verso i genitori che verso quel bambino, il quale, prima o poi, si sveglierà dal torpore e si ribellerà. È del genitore che mi preoccupo, perché un adulto che rinuncia all’esperienza di condivisione con i propri figli – e non mi riferisco solo alla condivisione di uno spazio televisivo – che sostituisce il dialogo con la stanchezza, la demotivazione, il “non so che fare”, e abbassa il grado della sua ansia (la stragrande maggioranza dei genitori odierni soffre di ansia!), allontanando dalla sua sfera emozionale il contatto con i figli, mi rimanda un’immagine quasi destrutturata dal punto di vista relazionale. Le conseguenze sul figlio, specie se piccolo, saranno relative ad una costruzione del sé relazionale basata su ciò che il genitore ha evitato, su ciò che il genitore non ha riconosciuto, su ciò che il genitore non ha accolto soprattutto del suo sentire. Tornando alla domanda se dare ai bambini tablet o televisori per una visione in solitudine, dico con responsabilità che non sono d’accordo e credo che quanto ho appena espresso dia una motivazione a questa mia negazione. 

Oggi adulti e bambini sono esposti a una quantità maggiore di contenuti pubblicitari e commerciali, spesso integrati nei programmi stessi. Quali sono le conseguenze di questa incessante esposizione?

Anche in questo caso tutto passa attraverso il sentire educativo del genitore soprattutto. La pubblicità è esistita fin da “Carosello” che tutti noi, bambini di quell’epoca, abbiamo guardato. Ma sapete qual è la sorpresa che la visione degli spot pubblicitari presentati da Carosello riservava? Non ci si soffermava sul prodotto pubblicitario ma sul cortometraggio, sulla storiella che diventava figura di primo piano e faceva andare sullo sfondo il prodotto! Oggi la percezione del prodotto pubblicizzato diventa dominante anche nell’adulto, che ha difficoltà a mediare messaggi più o meno veritieri e che spessissimo rimandano ad una realtà poco o niente verosimile. Se il genitore filtra contenuti e messaggi, trasmettendo ai figli significati e simboli in modo semplice e corretto, ridurrà spontaneamente il tempo dell’esposizione mediatica e snellirà il senso che i figli, specie se bambini, possono attribuire a immagini e contenuti.
È innegabile che l’esposizione mediatica ormai è più che cresciuta e quasi incontrollabile ma tutto può essere ridimensionato e accomodato grazie alla capacità dell’adulto (genitore o insegnante che sia) di sapersi mettere accanto al bambino, adattarsi alla sua sana curiosità, lasciarsi guidare dal sentire del bambino e vivere la stessa dimensione.  

Forse la nostalgia per la televisione di ieri ci fa correre il rischio di idealizzarla. Ci sono, a suo avviso, dei programmi odierni che, nonostante tutto, riescono ancora ad essere educativi?

Mi sento piuttosto scettica sulla capacità educativa di programmi televisivi odierni. Anche a me, adulta, viene difficile riscontrare contenuti socialmente e culturalmente utili. Mi si lasci andare, forse nostalgicamente ma con una notevole emozione, al programma dei primi anni ’60 del secolo scorso dal titolo “Non è mai troppo tardi”. Era il periodo in cui lo stato aveva dato l’avvio alle scuole popolari sul territorio per arginare e risolvere l’alto tasso di analfabetismo riscontrato dopo il periodo della seconda guerra mondiale e coincidente con il boom economico che già si affacciava nella vita degli italiani. Bene. Io avevo quattro anni e il programma “Non è mai troppo tardi” andava in onda nel primo pomeriggio ed era tenuto dal maestro Alberto Manzi. Teneva le sue lezioni avvalendosi della lavagna luminosa su cui scriveva con un gessetto nero. Io mi incantavo. Ricordo tutto e…imparai a leggere e a scrivere già a quell’età senza essere una bambina per forza dotata o geniale. È la mia esperienza, è il mio riferimento ad un pezzo della storia della nostra cultura che ha fatto la Storia. La mia domanda adesso è (come risposta alla domanda posta dall’intervista) su quale definizione della cultura vanno inseriti i programmi odierni? Orientarci su questa ricerca a mio avviso è l’atteggiamento più corretto se si vuole dare una risposta sensata e completa alla domanda posta. Non è consentito generalizzare data la complessità sociale, civile, umana nella quale ognuno di noi si trova a vivere e soprattutto a operare, perché generalizzare distorce ogni comunicazione diretta e corretta ed è utile solo per evitare l’ansia prodotta dalla difficoltà di una risposta coerente e adeguata. Generalizzare non solo distorce la comunicazione ma confonde gli interlocutori allontanandoli dallo scopo del comunicare stesso. Chiudo con la domanda, prospettando una prosecuzione dell’argomento posto proprio a partire dalla domanda stessa.

 

Sara Sigona

Giornalista pubblicista e insegnante, scrivo con la luce e con l’inchiostro sin da bambina. Fonte di ispirazione il viaggio lungo paesi del mondo e paesaggi esistenziali della contemporaneità.

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