Via De Grasperi, 20 - 97100 Ragusa +39 348 2941990 info@operaincerta.it

La casa

Giuseppe Cusumano 14 aprile 2024


La casa aveva diecimila scalini, / mille anni e più di cento bambini, / la casa aveva certamente due porte: / una in faccia al sole e l’altra / che ci pioveva sempre forte...

L’album si intitola 700 giorni, ed è del 1986: Genova si conferma capitale della world music, due anni dopo il tracciante di Creuza de mä nel firmamento delle note d’autore.
Fabrizio De André e Mauro Pagani hanno ipotizzato e realizzato un album in dialetto genovese con sonorità mediterranee (immerse nei mercati rionali al suono di bouzouki, mandole, tamburi e fiscaletti) al di fuori di ogni moda e tendenza del momento.
Solo Peter Gabriel, nel 1980, ha avuto il coraggio (o la visionarietà) di iniziare le prime sperimentazioni etno-elettroniche col brano Biko («...l’Africa racchiusa in un satellite e mandata a spiarci da lassù...», scrisse qualcuno sulla rivista ‘Rolling Stones’), ma le contaminazioni afro dilagheranno solo con l’album So del 1986, anno in cui Paul Simon ha fisicamente raggiunto il Sudafrica per registrare, insieme a una costellazione di musicisti e vocalist indigeni, il suo Graceland, capolavoro folk-zulu in un periodo di grande fermento anti-apartheid, che porterà – 4 anni dopo – alla liberazione di Nelson Mandela.
Tre anni dopo intanto – ed è il 1989 – anche David Byrne farà la sua parte, pubblicando Rei Momo, un viaggio singolare tra i ritmi e i musicisti centro-sudamericani (da Celia Cruz a Milton Cardona fino a Arto Linsay): ma i ‘suoi’ Talking Heads avevano già, 10 anni prima!, articolato un testo dadaista sopra un sottofondo tribale col brano Izimbra (del 1979), e successivamente deragliato lungo avenidas cubane con a bordo chitarre afro in (Nothing but)Flowers (del 1988).
In Italia è Battiato a sperimentare influenze ed echi d’altri mondi, la sua Campane tibetane è una sorta di autobiografia del 1983, tratto dall’album Orizzonti perduti, mentre l’anno successivo – quasi in contemporanea con la pubblicazione di Creuza de mä - Franco (nome propostogli dall’immenso Gaber, per evitare confusioni del suo nome di battesimo con quelli di Guccini & De Gregori) percorrerà in treno la Tunisia pre-sahariana insieme ad Alice, fino a Tozeur e da lì oltre (I treni per Tozeur è del 1984, l’album che lo contiene è Mondi lontanissimi, del 1985).
E così, nel 1986 è il turno anche per Ivano Fossati. Abbandonati gli esordi prog e l’esperienza rock da solista, Ivano Fossati accoglie nel suo linguaggio poetico e immaginifico le prime contaminazioni etniche: una sezione percussiva sudafricana scandisce quasi una favola per grandi e piccini, come scritta a quattro mani da Gianni Rodari & Giorgio Gaber (o perlomeno così mi piace sognarla).
«...e anime ad andare e a venire / era un gran bel camminare / gente che doveva lavorare / alla fermata delle sette / sotto i cappotti e sopra le biciclette...»
Fu una illuminazione, ascoltare questo brano dal titolo La casa, sesta traccia dell’album 700 giorni, per le strade di Dar Es Salaam quando ancora l’aurora è una ipotesi ma già la vita è in cammino tra le fioche luci di qualche neon e in mezzo agli scarichi caliginosi dei troppi camion senza manutenzione. Fu una consapevolezza amarognola attraversare Torino alle prime luci dell’alba per raggiungere l’aeroporto in novembre, con le gocce di pioggia che danzavano l’autunno sui vetri del pullman, e i tergicristalli nervosi delle auto e il passo scialbo dei lavoratori lungo i consueti marciapiedi. Divenne gioia di vivere raccogliere bambini di ritorno dalla scuola lungo le piste sconfinate della savana, e qualche mamma paziente, e cantare con
loro nenie senza tempo, strofe di suoni primordiali, condivise con gioia e sudore argilloso. E così, La casa riporta una frase assolutamente vera, lirica e intrisa di quella umanità che si riscopre felice di esserci e ritrovarsi.
«...e avevamo poche canzoni, / ma duravano tutto il giorno: / gli facevamo fare andata e ritorno, / facevano andata e ritorno...»
Ho fatto ascoltare il brano a un bambino di un anno, si chiama Benedetto, oggi avrà 5 anni in più, sua mamma è una ragazza Mang’ati, il padre chissà, un auricolare ciascuno, io e Benedetto, ci guardavamo negli occhi ed entrambi ci siamo dondolati al ritmo di quelle percussioni, su quello scalino della missione di Kitanewa. Quando il brano è andato sfumando verso la fine, Benedetto mi ha guardato come stranito, troppo pochi quei cinque minuti davanti all’estenuarsi del suo tempo in fondo alla savana. E allora lo abbiamo riascoltato altre 6 volte, fino a che sua mamma non lo ha preso in braccio per avvolgerlo sulla sua schiena di velluto con un kanga colorato, e portarlo alla capanna per la notte, «...C’era la scala che saliva al terrazzo / quaranta metri di vicinanza al cielo / per vedere le stelle d’agosto / che ci sembravano un velo, / che sembrano comunque un velo...»
E così, nelle mie playlist africane, quelle che compongo prima durante e dopo i miei viaggi in Tanzania, questa canzone non può mancare. Non può mancare Fossati, non possono mancare quei battiti cardiaci così ancestrali e sommessi, quel perpetuarsi di voci bambine all’uscita di scuola tra i villaggi assolati come, invece, di quegli impermeabili indistinti – nel nostro emisfero - nell’atmosfera vaga delle nostre mattine uguali, che richiamano la pianura padana dalle sei in avanti (“...una nebbia che sembra di essere dentro / a un bicchiere di acqua e anice...”) di Paolo Conte e delle sue ambientazioni retrò ma non troppo (“Ah come piove bene / sugli impermeabili.../ ma non sull’anima...”): ma questa è un’altra storia.
Altrimenti apriremmo la maglia della libertà, della storia che si ripete sempre uguale, e una casa può invece essere amniosi, un baobab con le stelle impigliate tra i rami, una canzone, un equilibrio tra due mondi, un pentagramma con dei versi in sospeso tra fantasia e realtà, “...e in ogni stanza c’era più di un letto / per gli amori belli e quelli da non dire / e certamente c’era un tetto rosso / e muri bianchi per starci a ridosso...”.
Non so quante altre volte tornerò ancora in Africa, e quante mattine uggiose ancora affronterò per andare a lavorare. Ma questa canzone – ascoltata per la prima volta su un giradischi, verso la fine del 1986 – mi accompagnerà sempre, come in un viaggio magistrale, come un attraversamento dimensionale, come un semplice rifugio ideale dentro al quale ripararmi da ogni avversità o lasciarmi avvolgere da piccole inesprimibili emozioni. Ero al primo anno di università, la musica girava intorno e non so se sarà mai più come prima.
«… La casa aveva diecimila scalini / mille anni e non so più quanti bambini / Bambini e operai tutti dentro al portone / Aspettiamo che spiova signor padrone, / noi aspettiamo che spiova...»

Giuseppe Cusumano

Giuseppe Cusumano è nato nel 1968 in un paesino del Polesine che oggi non esiste più, da genitori etnei di Militello in Val di Catania. Vive a Ragusa da oltre 40 anni e scrive quasi da sempre, da mancino corretto: ama la musica, nuota e si diletta di fotografia, ha praticato calcio e arti marziali, si nutre di libri, di natura e di umanità.
Risulta curioso, poco ortodosso, distrattamente attento, dotato di ottima memoria - e anche per questo dicono soffra di ‘retrotopia’.
Di professione Malaùssene, da nove anni coordina un Progetto di volontariato (nato in Ambasciata e radicato presso la missione di Kitanewa) per la costruzione di scuole di ogni ordine e grado nella regione di Iringa, in Tanzania, e continua a farsi correggere i compiti dalla sua prof di lettere.
Ha pubblicato diversi racconti e articoli, un diario di viaggio africano (Quaderni tanzani, OperaIncerta Editore), un romanzo (La terza banca, La Zisa Ed., recensito su Repubblica), e incredibilmente una raccolta di poesie (Minimalia, Libro Italiano World Ed.).
Saltuariamente ha scritto su un blog, ma non è cosa sua.
In compenso, a breve pubblicherà il suo nuovo romanzo, ambientato in Africa, dal titolo Agli elefanti invece sì, editore cercasi.

Contatti

Via De Gasperi, 20
97100 Ragusa

info@operaincerta.it

+39 3482941990

I nostri link

© Operaincerta. All Rights Reserved. Designed by HTML Codex