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Casa e (è)... felicità

Daniela Ferrera 14 aprile 2024


La strada non porta a casa se la tua casa non sai qual’ è”, cantava Ghali all’ultimo festival di Sanremo.
È un verso bellissimo, che induce alla riflessione, a interrogarci sul senso del nostro cammino e sul significato reale, concreto, della parola “casa”. Nella sua canzone, il rapper italo-tunisino parla di “casa” come di luogo non fisico ma interiore, spirituale. Di una comfort-zone su misura, in cui sentirsi liberi e a proprio agio a dispetto dei muri eccessivamente spessi eretti dal mondo. E’ la “casa” del nostro cuore, delle nostre radici, che si contrappone alla sostanza materica di cui sono fatti gli edifici, le palazzine, gli alloggi, le abitazioni, tutti sinonimi “fisici” adoperati nel linguaggio corrente e universale per la parola “casa”.
Ma per quanto questa canzone ci offra uno spunto sul tema, il concetto di “casa” è in realtà qualcosa di più difficile da definire. Mentre la lingua italiana ci ha abituato a utilizzare il termine nella duplice accezione di edificio e di dimensione interiore, la lingua inglese distingue per “casa” tra le parole “house” e “home”, intese, rispettivamente, come “struttura fisica” e come “spazio degli affetti”. “House” è riferito alla costruzione, all’abitazione fatta di pavimenti, muri e tetti, mentre la parola “home” suggerisce una definizione di casa come focolare domestico (quello che i greci chiamavano ‘Hestia’, ovvero il centro della Terra, ma anche il centro della casa), un luogo dove rilassarsi e poter ritornare. Dove essere felici, in buona sostanza. Come ci ricorda anche un antico proverbio arabo, secondo il quale ”la felicità non è un posto in cui arrivare ma una casa - appunto - in cui tornare.”
Non sorprende, dunque, il fatto che l’uomo ha sempre avuto bisogno di una casa in cui “abitare”, di un luogo dove trovare il proprio posto. Non un mero spazio da occupare, ma un ambiente, un contesto, da vivere e condividere con gli altri. Per molti filosofi (da Platone, a Moro, a Heidegger) vivere pienamente il senso dell’abitare consiste nel non ritenere di vivere in una abitazione solo per esigenze pratiche e nel comprendere che alla base dell’azione dell’abitare esiste soprattutto un rapporto di scambio e di reciproca contaminazione tra la dimensione fisica che definisce il luogo e tutto ciò che di immateriale e culturale l’uomo vi fa confluire. Ecco che il luogo assume, quindi, più dimensioni, diventa uno stato, un modo d’essere o di percepire un determinato ambiente, la relazione con un certo contesto. Le cose che collezioniamo parlano di noi, del nostro modo di essere e la “casa”, di conseguenza, diventa lo “specchio di noi stessi”, lo strumento per entrare in contatto con il nostro IO più profondo.
Se pensiamo, per un momento, alle stanze che compongono la nostra casa ci vengono subito in mente alcune associazioni forse banali ma pertinenti: la camera da letto ci riporta alla notte, ai nostri sogni, alle riflessioni che facciamo da soli avvolti nel silenzio e nel buio; la cucina ci stimola odori o sapori associati a ricordi di persone e luoghi differenti, come quelli della nostra infanzia; il soggiorno racchiude la maggior parte della nostra vita da svegli e gli oggetti che lì ci circondano hanno un valore simbolico per noi: alcuni di essi sono regali di persone care, altri ci ricordano momenti importanti della nostra vita, altri ancora sono souvenir di Paesi che abbiamo visitato. Ogni stanza, ogni luogo della casa, diventa una metafora della nostra anima e noi, abitando le nostre case in modo ‘poetico’ - per dirla con Heidegger – riusciamo a comunicare qualcosa di noi agli altri.
Una casa concepita in questo modo diventa, allora, l’evento morale per eccellenza.
A dare questa particolare definizione della “casa” è Emanuele Coccia, filosofo italiano e professore parigino d’adozione, tra gli intellettuali contemporanei più versatili nonché autore del divertente e acuto saggio dal titolo “Filosofia della Casa. Lo Spazio domestico e la felicità”, edito da Einaudi. L’idea del libro parte dall’esperienza personale di 30 traslochi e dalla ricognizione e analisi degli spazi interni da lui via via abitati per giungere alla convinzione che la casa non ha niente a che vedere con l’architettura e il design ma è piuttosto “un artefatto psichico”, un’estensione dell'Io che è continuamente in divenire e che per divenire ha bisogno del rapporto con l'altro. Per lui non esistono case ma il “far casa” e la casa è un’entità morale capace di accogliere tutto ciò che rende possibile farci sentire felici e che implica una trasformazione, una relazione tra noi che abitiamo lo spazio e gli oggetti e lo spazio che influenzano il nostro modo di vivere la casa.
Non è possibile vivere in una casa vuota (esperienza, tra l’altro, da lui provata), senza un letto, senza un tavolo, una sedia, senza cose. La forma “casa” in sé e per sé è solo un’astrazione. Gli oggetti, le cose, possono vivere anche fuori dalle case, mentre le case senza le cose sono solo pura geometria.
Scrive l’Autore che ogni casa dovrebbe essere “la struttura che permette a una persona di vivere attraverso l’altra, non una busta di vetro, acciaio e cemento che ci separa dal resto del mondo“.
Perché, dunque, da millenni continuiamo a costruire case? Coccia dà una risposta semplice: perché il mondo non è in grado di offrire una felicità immanente, che sia già di dafault: gli esseri umani non possono essere felici semplicemente esistendo, hanno bisogno di abbattere muri e spostare pietre perché la felicità è un artefatto così come lo è la casa. Ogni volta che si costruisce una casa è per consentirci di vivere più felici. Da questo punto di vista, qualsiasi sia la forma e la tecnica che si utilizzano per costruire casa, queste producono poi “una forma di felicità stabile, non passeggera, non effimera”.
Negli ultimi anni, soprattutto con la pandemia, questo spazio di intimità rappresentato dalle nostre case si è però trasformato in maniera significativa e da privato è diventato, attraverso i social, uno spazio domestico globale i cui confini sono ormai sempre più labili ed esposti. Mentre un tempo la nostra vita si svolgeva essenzialmente all’esterno e la “casa” era il luogo in cui si faceva “ritorno” per uscire di nuovo, con la rivoluzione digitale sono stati ridefiniti gli spazi reali di abitazione, immaginando coabitazioni diverse, con whatsapp o facebook come grandi e ospitali salotti.
Come sarà, allora, la casa del futuro? Per Coccia dovrebbe sapersi modificare in ”pietra filosofale”, ovvero in un processo alchemico che porti, al passo con i tempi, a un nuovo modo di vivere gli spazi interni delle nostre case, che già adesso necessitano di essere più belli e più grandi.
L’autore traccia una chiave di lettura illuminante: “dobbiamo ripensare materialmente le case come dei videogiochi, degli spazi di mescolanza in cui l’immaginazione definisce la materia e non il contrario, capaci di trasformarsi rapidamente, come rapidamente può cambiare il clima o il tempo.”
La casa del futuro non può, in conclusione, essere definita con una forma unica, deve essere piuttosto paragonata ad un abito che aderisca alle nostre identità diverse e “allargata” secondo le nostre esigenze di vita.

Daniela Ferrera

Daniela Ferrara nasce nel 1968 a Ragusa dove attualmente vive e lavora.
Sue grandi passioni, il giornalismo e la traduzione. Laureata in Lingue e Letterature Straniere Moderne, annovera tra le sue esperienze formative nel campo linguistico il lavoro di traduzione di importanti documenti del patrimonio storico della Regione Siciliana, disponibile presso il Ministero dei Beni Culturali, la traduzione di un saggio italo-americano e di articoli per alcuni portali, tra cui East Journal, quotidiano on- line di attualità politica europea. Ex Giornalista pubblicista, ha collaborato per anni come componente di redazione con varie testate locali e alcune riviste on line, come “Le Fate”, periodico di Arte, Cultura e Identità siciliana. Abilitata nel 2005 alla professione di guida turistica, esercita negli anni, in questo ambito, attività di assistenza a giornalisti, registi e scrittori, per studio, ricerche o individuazione di locations cinematografiche nella Provincia di Ragusa. Collabora, nel 2010, con il giornalista Rai e scrittore Roberto Alajmo per la stesura del libro: L’Arte di Annacarsi.

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