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La Casa grande

Fabio Wasserman 14 aprile 2023


Questa non sarebbe stata una settimana qualsiasi. L’ho saputo quando dall’autobus sono tornato a vedere la porta verde fuori di squadra, quasi sul punto di cadere. Sembrava un portone ubriaco. Il muro di mattoni vuoti ancora si conservava, anche se si notava che erano stati posti di fretta insieme al portone. Tutto la stessa cosa come se fosse necessario aprire il muro per entrare o uscire.
Ho trattenuto quest’immagine durante tutto il percorso, forse questo perché andavo al porto e alcune imbarcazioni ferme sul fiume sembravano prigioniere.
Quest’insieme fraterno di mattoni e ferro era la facciata de La casa grande. Questo nome lo ha inventato per caso Juana.
- Sembra un bunker, una casa della resistenza – diceva, almeno fino al giorno che mi buttò fuori e non sono più tornato a sentirla.
Molti lo chiamavano la mensa del quartiere La Boca, ma io ho continuato a chiamarla La casa grande. Dal finestrino del bus il marciapiede si vedeva pulito, vuoto, senza rumori.
Messa a morire. Due mesi fa, quando è salito al potere il nuovo governo, e ha dato l’ordine di smettere di mandare sacchi di cibo e la ha chiusa. Hanno detto che era una spesa superflua.
Quando sono sceso dall’autobus ho camminato per il porto. Non avevo nulla da fare. Vedevo quegli uomini dalla grande schiena e lunghe braccia, mentre aspettavano che li chiamassero per fare i camalli, simile al lavoro che faceva mio nonno quando è arrivato, nel secolo passato a Buenos Aires. Come se il tempo fosse in ritardo, un’altra volta mi sono sentito nel passato. Forse per la nostalgia, le persecuzioni del governo contro i poveri, le persone che dormono in strada, buttate fuori dalle loro case, così ho deciso di tornare alla Casa grande, di ritornarci a piedi.
Camminavo sul pavé, guardavo i tetti di lamiera, i muri gialli e azzurri, colorati come se un pennello fosse scappato dalle mani di un pittore. I colpi del calzolaio, l’officina abbandonata, la conceria chiusa e alcuni operai accampati sulla porta aspettando che gli paghino i salari dovuti.
Ho cambiato marciapiede, sentivo che mi dava una sensazione di malessere. Ho sentito il rumore dei camion lo stridere dei freni e sono apparsi, come usciti dall’inferno, una cinquantina di poliziotti. No li ho contati, forse erano di più. Hanno rotte le tende e lanciato fumogeni. Ho corso fino al viale quando ho sentito quelli che sembravano degli spari.
Mi sono allontanato per alcuni isolati. Il pomeriggio plumbeo contrastava con quelle casette colorate attaccate l’una all’altra. La gente triste, spaventata per la naturalezza delle cose, come se fosse naturale la disperazione.
Non so perché mi porto dentro questo desiderio irrefrenabile di continuare.
Sono entrato in un bar, c’era la televisione accesa, il cameriere era concentrato sullo schermo. Davano le notizie internazionali: Israele lancia bombe sugli innocenti palestinesi. Poco dopo il cameriere ha cambiato canale, un giovane con gli occhiali e la testa rapata afferma che il presidente parla con il suo cane morto e gli manda a dire che non gli tremino le mani: uccidere o morire. Il giovane con gli occhiali racconta che sono stati undici mila i lavoratori.
Ho iniziato a fare i conti, volevo sapere quanti altri sarebbero venuti a mangiare alla mensa. Non sarebbero bastate le pentole ho detto a voce alta, distrattamente.
- Cosa le porto? -  ha detto il cameriere d’improvviso.
- Un espresso. Hanno detto qualcosa di quello che succede alla conceria?
- Non dicono nulla - ha risposto in un soffio. Cammino verso il bancone e zittisco la televisione.
Ho bevuto il caffè e me ne sono andato lentamente, facendo la stessa strada che ho fatto per due anni insieme a Juana. Il giorno che hanno messo il lucchetto alla Casa io guardavo dall’altro lato della strada, dietro gli alberi. Non volevo che mi vedessero. Quando se ne sono andati, ho attraversato la strada e ho guardato perla serratura.
Dentro c’erano i tavoli accatastati e le lunghe panche di legno. Dietro le due cucine Longvie che aveva regalato lo zio di Juana.
Lui aveva nostalgia di quello che era stata prima La casa grande ed è per questo che le aveva regalate. Un vecchio locale di mattoni del Tango, che quando lui è arrivato non era ancora stinta né sembrava sul punto di crollare.
- Prima dava l’impressione di essere qualcosa che andava oltre - raccontava lo zio -. L’insegna del locale era illuminata da una lampada di tungsteno che aveva fatto mettere Perón in onore a Sabino Lopez.
Lo ripeteva tante volte ma quasi nessuno gli prestava attenzione.
- Quello suonava bene il bandoneon. Si tirava su le maniche della camicia, restava a guardare le travi arrugginite del tetto e iniziava il brontolio – lo diceva come se lo stesso vedendo.
Sempre ricordava il locale della milonga, diceva che era stato chiuso perché il mondo invecchia.
Quando raccontava queste cose, Juana lo guardava di sbieco, era il suo protetto. Una volta lei mi aveva raccontato che lui aveva smesso di bere, era pulito da sette anni. Per questo nella casa era proibito l’alcol. È la prima regola, mi ha detto il giorno che sono arrivato. L’ho ascoltata, ammirato e anche un po’ innamorato. Juana quasi sempre era allegra, ma all’arrivare alla Casa Grande diventava seria e iniziava a dare ordini perché tutto funzionasse. Accendeva due enormi estrattori che avevano posto quelli della ferramenta all’angolo, passava la mano sulle tavolate che sempre dovevano essere ben pulite e metteva in ordine la fila di quelli che venivano con il baracchino a prendere il mangiare.
Aveva attenzioni per tutti, ma le sue preferite erano la Susana e la turca. Loro cucinavano dal lunedì al lunedì. Iniziavano presto con le verdure, le patate e le salse. Io tagliavo il pane, contavo le persone perché ce ne fosse per tutti. Susana misurava le razioni, era una esperta. Poche volte qualche famiglia se andava con il baracchino vuoto.
Arrivavano dalle case di lamiera o da altri quartieri lontani dal porto del La Boca.
All’inizio aprivamo a mezzogiorno e alla sera, ma quando hanno deciso di mandare meno cibo, si cucinava solo per la cena. I vicini facevano una coda molto lunga che faceva il giro della casa di Don Alfaro. Lui s’arrabbiava diceva che gli sporcavano il marciapiede con cartacce e merda. Così diceva.
Stavo per arrivare alla Casa grande, il silenzio dell’isolato fu rotto dalle voci di alcuni ragazzi che bevevano sul marciapiede. Tra il vociare mi è sembrato di sentire la voce di Juana. L’accusa.
Era stata per le bottiglie di gin. Le avevo portate nello zaino ignorando l’unica regola della Casa Grande.
Qualche giorno prima erano spariti dei sacchi di farina. Lo zio di Juana diceva che li avevo rubati io. Una notte sono entrato in cucina. Eravamo soli. Lui ed io. Abbiamo iniziato a parlare del quartiere, il locale del tango e ho tirato fuori una delle bottiglie. Non ho detto nulla, mi sono servito e ho bevuto poco a poco. Ha messo un altro bicchiere sul tavolo e l’ho riempito fino alla metà, poi a bevuto altri bicchieri fino a quando si è sfogato.
- Li hai rubati, ragazzo.
Mi sono difeso e sono tornato a riempirgli il bicchiere.
- È stato solo un sacco, si diceva che non mandavano più da mangiare e “Io che dovevo fare? – ho confessato dopo che lui è caduto ubriaco sui sacchi di cipolle.
Susana è stata chi lo ha raccontato. Lei l’ha trovato addormentato in cucina.
Non sono tornato per diversi giorni. Quando mi sono presentato Juana era sulla porta.
- Questo non entra – ha detto guardando lo zio.
Il calore mi è salito in volto, sono stato sul punto di piangere. Mi sono trattenuto quando ho visto le famiglie in attesa, preoccupare, con la paura che le razioni non fossero sufficienti.
Ieri, quando mi sono fermato davanti a La Casa grande avevo angora il sapore in bocca del caffè espresso, ma anche di quel gin. Mi era sembrato che la porta fosse aperta. Ho sentito il rumore di pentole e piatti. Mi sono appoggiato alla porta di ferro e ho sentito che tutto era acceso. Ci ho messo un po’per capire che volevo tornare dove ormai non c’era nulla. Mi sono seduto sul marciapiede davanti alla porta ubriaca ad aspettare l’alba.

Fabio Wasserman

Fabio Wasserman si è laureato in Scienze Sociali presso l’Università di Buenos Aires (UBA), Argentina. Nel 2008 ha fondato e diretto la casa editrice “Del Subsuelo Editores”. Dal 2018 al 2022 ha presieduto la Società degli Scrittori di Buenos Aires. Diversi suoi racconti e poesie sono stati premiati e pubblicati su media nazionali e internazionali. È scrittore, musicista e bandoneonista.

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