Le società occidentali vanno sempre più trasformandosi in società multiculturali e multilingue in cui la sfida imponente è rappresentata dall’incontro fra culture e religioni diverse fraloro, a volte anche diametralmente opposte, e dalla necessità da parte del mondo occidentale di aprire sé stesso all’incontro, allo scambio ed al confronto con la “diversità”. E la diversità, la storia purtroppo ce lo insegna, spesso fa paura. Dinnanzi a ciò che è diverso, “altro” da noi, spesso scattano meccanismi di difesa individuali e collettivi (l’ideologia razzista: i diversi sono inferiori, i diversi si devono integrare a noi – cultura dell’integrazione). Quando arriva un ospite a casa nostra, cerchiamo di metterlo il più possibile a suo agio, puliamo ed ordiniamo la casa, compriamo dei dolci, delle bibite, magari abbelliamo anche la casa con fiori e creiamo una atmosfera accogliente e calda. In altri termini noi modifichiamo le nostre abitudini per poter soddisfare i bisogni e i desideri del nostro ospite. Allora perché non facciamo lo stesso con gli immigrati? Perché non riusciamo a porci come dei padroni di casa che aspettano i propri ospiti? Dinnanzi al fenomeno dell’immigrazione siamo chiamati, individualmente e socialmente, a modificare le nostre abitudini, ad aprire i nostri orizzonti mentali, relazionali e culturali, a modificare le nostre regole e strutture sociali. Siamo cioè chiamati ad operare dentro e fuori di noi un cambiamento individuale e collettivo, riappropriandoci della sana eccitazione che l’incontro con “il nuovo” determina naturalmente in ogni organismo umano, al fine di “incontrare” il “diverso da noi” e in tale incontro poter assimilare “le novità” che possono permetterci di crescere e maturare. Non integrazione tra culture diverse, quindi, bensì accoglimento dentro di noi della diversità in un reciproco incontro che permetta ad entrambi i partners di crescere nel cambiamento, arricchendosi ed aprendosi alla costruzione di nuovi orizzonti ermeneutici. Ed invece accade l’esatto opposto. Ci chiudiamo e nella migliore delle ipotesi chiediamo al diverso da noi di adeguarsi ed adattarsi a noi, alle nostre regole, ai nostri usi e abitudini. Gli chiediamo in altri termini, non essendo noi disposti ed aperti al necessario cambiamento per poter accogliere l’altro, di accogliere noi dentro di lui e, rinunciando a parti di sé, assumere come vere, proprie abitudini e regole ad esso sconosciute: assumiamo un atteggiamento di tolleranza rispetto all’altro, mantenendolo ben lontano dalla possibilità di un reale incontro con noi. Nella peggiore delle ipotesi nasce il rifiuto totale dell’altro, la negazione della sua esistenza stessa, l’altro viene visto come il nemico da combattere e cacciare via: la nostra chiusura diventa totale. In entrambi i casi siamo di fronte ad una cultura fortemente razzista, cioè una visione della vita basata sull’accentuazione delle differenze razziali, culturali e religiose e sul considerare una razza, una cultura, una religione superiore – quella buona e giusta – (in questo caso la nostra, quella occidentale) ad un’altra che viene considerata inferiore – cattiva, non giusta – (tutte le altre). I motivi di tale rifiuto, o al massimo di una tolleranza rispetto alla diversità, sono da ricercare nell’interconnessione di fattori psicologici individuali, fattori sociali e religiosi e fattori educativi che vanno nel loro insieme a caratterizzare tutte le culture e le società occidentali moderne. La cultura occidentale e le religioni fino a pochi decenni fa erano caratterizzate da meccanismi fortemente introiettivi, cioè si basavano sull’accettazione incondizionata ed acritica da parte del popolo delle regole e dei dogmi culturali, sociali e religiosi. Negli anni settanta e ottanta tale meccanismo culturale è stato ribaltato dietro la spinta dei movimenti studenteschi e femminili. In tal modo, a partire dagli anni ‘90 a tutt’oggi, abbiamo assistito all’affermarsi di una cultura narcisistica, caratterizzata dall’esaltazione individuale del Sé. Il carattere narcisista per poter essere tale deve necessariamente sviluppare un senso di totale indifferenza verso l’altro, verso il diverso da sé che viene visto e considerato come inferiore. E ciò avviene apartire da un meccanismo di scissione tra sé ideale in cui il narcisista si identifica (quello bello e perfetto) e sé reale che viene proiettato al di fuori negli altri (brutto e cattivo). Fino a quando gli altri (il proprio sé reale) stanno a debita distanza e non invadono il sé ideale, il narcisista può tollerare la presenza dell’altro (cultura della tolleranza e dell’integrazione), ma nel momento in cui l’altro e quindi il sé reale si avvicina troppo a quello ideale, quest’ultimo inizia a sentirsi invaso, minacciato nella sua integrità (scatta la paura di guardarsi allo specchio). Allora il narcisista deve difendersi e scacciare via il diverso da sé, demonizzandolo ed aggredendolo fino a distruggerlo (cultura del razzismo e dell’intolleranza). In entrambi i casi assistiamo a meccanismi di difesa che vengono messi in atto per difendere, proteggere e preservare la propria immagine idealizzata (ci si considera perfetti, i migliori in assoluto per proteggersi dal senso di vuoto, miseria, povertà,schifezza che è insito in ogni narcisista a livelli molto profondi) che viene vissuta come in pericolo quando il diverso da noi si avvicina troppo a noi stessi (il diverso da noi, altro non è che la parte brutta e cattiva di noi stessi). Tali meccanismi individuali presenti in ogni personalità narcisistica sono messi in atto ancor più marcatamente a livello collettivo. Le società occidentali, caratterizzate da una cultura notevolmente narcisistica (il modello occidentale è considerato come il migliore, quello buono, perfetto) fondano sé stesse sul proiettare le proprie imperfezioni, contraddizioni, brutture e cattiverie sulle altre società che sono così viste come imperfette, sbagliate, brutte. Ed allora, se pezzi delle società brutte entrano e si mescolano con le società belle, l’occidente comincia ad impaurirsi, si sente minacciato, teme di poter essere inquinato nella sua perfezione e di poter scoprire, rispecchiandosi nell’altro, d’essere imperfetto. Allora ci si deve difendere e scatta il meccanismo preventivo della tolleranza: vi sopportiamo, basta che voi vi adeguiate a noi; potete stare, l’importante è che non date fastidio e rimanete confinati nel ghetto; vi dovete integrare con noi perché noi siamo quelli giusti e voi quelli sbagliati e l’importante è che noi non dobbiamo cambiare (cultura dell’integrazione dell’altro con noi, della tolleranza). Ma si sa che l’incontro tra due organismi diversi impone ad entrambi di cambiare, di modificarsi, di adattarsi l’uno all’altro, costruendo una gestalt nuova diversa dalla somma delle singole parti (questa è una legge naturale). Allora scatta il terrore, il panico nel mondo occidentale che si sente minacciato e reagisce demonizzando l’altro: nasce il razzismo. Fino a quando continueremo ad usare un pensiero che divide il bello dal brutto, il giusto dallo sbagliato, il buono dal cattivo, il morale dall’immorale, e quindi costruiremo ideologie, religioni, culture, società basate su tale scissione, e fino a quando non riusciremo a vedere che in ognuno di noi la nostra parte bella danza con quella brutta, quella cattiva fa l’amore con quella buona, quella giusta dialoga con quella sbagliata, quella immorale si fonde con quella morale, ed il tutto avviene con una grande naturalezza ogni attimo che viviamo e con un grande senso di integrità, cioè fino a quando vivremo nell’irreale, nell’illusione e costruiremo società irreali ed illusorie molto lontane dalla reale dimensione umana, il razzismo, in tutte le sue forme, manifestazioni e sfaccettature abiterà fra di noi.
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