La presenza degli animali in letteratura è attestata dalle origini alla contemporaneità. Fare un excursus dettagliato e completo vorrebbe dire scrivere almeno un volume. È però impossibile non ricordare le metamorfosi tanto di Ovidio quanto di Kafka, tutte quelle favole che hanno per protagonisti gli animali, e quindi una loro umanizzazione e tutti quei “bestiari” in cui l’animale rappresenta simbolicamente qualcosa. Così gli animali rappresentano vizi e virtù del tutto umani, in ragione delle caratteristiche che possiedono: la furbizia della volpe, la laboriosità della formica e via dicendo… immagine tratta dal manoscritto Bodley 764, metà del XIII sec. Ma abbandonando, come ho detto, la tentazione di scrivere un intero libro, mi sembra interessante vedere la presenza degli animali nella letteratura del ’900 ed in particolare in quella femminile. Giusto per porre un termine di paragone, è interessante notare come, generalmente nella letteratura maschile, l’animale, o la bestia che dir si voglia, diviene la rappresentazione non solo della diversità, ma di quella diversità interiore vissuta come problematica inferiorità e come disagio psicologico. D’altro canto la rappresentazione dell’interiorità è ciò che caratterizza l’espressione artistica del ‘900, in tutte le sue forme, dalla pittura alla letteratura. Così il progressivo trasformarsi del protagonista in scarafaggio, nella già citata Metamorfosi kafkiana è nient’altro che questo scoprirsi irrimediabilmente diverso e reietto. Esempio altrettanto interessante è Federigo Tozzi con la sua poco conosciuta ma straordinaria raccolta di racconti Bestie. In questi racconti, infatti, diversamente da ciò che accadeva nelle favole, è molto difficile capire in ragione di cosa appaia la bestia e questo perché dietro vi si nasconde un insieme di libere associazioni di immagine e di pensiero e perché, sostanzialmente, ogni raccontino è uno stato d’animo, un modo d’essere spesso inspiegabile e privo di un’identità ben precisa, che lo scrittore vive con disagio. Per le autrici il discorso è diverso, perché il tratto caratterizzante è invece una facilità di relazione con il mondo animale, anche quando si tratta di rettili, bestie feroci e uccelli rapaci. Accade così che a dispetto della distanza e del rifiuto che normalmente genera l’incontro con l’animale, questa relazione non solo si pone in una prospettiva alla pari ma addirittura rovesciata, in cui l’essere umano riconosce all’animale una forma di superiorità, in virtù della sua natura primordiale e naturale. Si riconosce nell’animale l’impronta divina, il maestoso compiersi della natura. Lungi perciò dall’essere considerati quale rappresentazione di vizi e di atti peccaminosi dai quali l’uomo deve rifuggire se vuole innalzarsi dal rango di animale, lungi dal rappresentare quella forma di inferiorità da evitare o, peggio, da sottomettere, gli animali dei bestiari femminili detengono un primato di virtù: tra umiltà, obbedienza, pazienza, facoltà di rispecchiare nitidamente la volontà divina che li informa e compassione, come capacità di prendere su di sé il dolore del mondo candidandosi a vittime sacrificali in un ideale progetto di universale redenzione. Così è per Anna Maria Ortese, scrittrice morta nel 1998, che non fa eccezione rispetto al discorso fatto fin qui. Il suo caso però è molto più complesso perché diversi elementi si mescolano creando esiti molto particolari. L’Iguana, Il cardillo addolorato e Alonso e i visionari, rispettivamente le storie di una servetta donna non del tutto, un uccellino forse morto forse no e di un mansueto puma dell’Arizona, sono romanzi in cui si concentrano non solo gli elementi caratterizzanti i bestiari femminili, la complessità della scrittrice ma soprattutto la sua tensione morale. Interessante è infatti il pensiero della Ortese relativamente agli animali e, più in generale a tutto il creato. Infatti dietro l’originalità delle storie narrate è il pensiero etico che sta alla base che è straordinario. Secondo la scrittrice, inumana e crudele non è la bestiola ma l’uomo stesso che con le proprie crudeltà e ferocia ha perso l’humanitas e la misericordia che dovrebbero contraddistinguerlo. Così l’iguana-servetta è il paradigma di tutti gli oppressi, gli inermi e i diversi, il cardillo è il mistero dell’amore, del cosmo e della natura in costante metamorfosi, mentre il puma rappresenta tutto ciò che di caro e di fidato è andato perduto. Lo spazio a disposizione e la complessità dei tre romanzi non consentono un approfondimento ulteriore né tantomeno una sintesi esaustiva ma mi preme concludere non solo invitando alla lettura delle opere citate ma ribadendo la tensione etico-morale di questa scrittrice citando le sue stesse parole: La Terra è il mio amore. Amo e venero la Terra; e i suoi figli più modesti e discreti mi sollevano nel cuore onde di emozione che un tempo, forse, appartenevano alla sfera del sentimento filiale, infantile. Amo e venero la Terra! È il mio Dio. Penso alle mucche, ai vitelli, al toro; capre e pecore e perfino all’umile maiale, come a rappresentazioni celesti: mansuete, dolorose sempre, benevole sempre, magnifiche. Non vedo perché l’uomo debba pensare che gli appartengono, che sono suoi propri, che può distruggerli, usarli. Il dolore dato all’altro non ha giustificazione.
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