Ho sempre pensato che l’Uomo, nella sua natura più profonda, abbia una vocazione primaria per due grandi polarità dialettiche della vita: il Lavoro e la Festa, e che questa vocazione sia stata nei secoli opportunamente riconosciuta e custodita, sia dalla cultura della “ragione laica” che dalla cultura della “fede cristiana”. "Gesù entra a Gerusalemme" in un incisione di Gustave Doré Nella cultura della ragione laica, che alla tradizione del racconto biblico è peraltro debitrice, il Lavoro assume i caratteri di una “drammatica necessità” per l’Uomo che voglia assicurarsi le condizioni della sopravvivenza, della dignitosa esistenza, e della realizzazione personale come protagonista intelligente e fabrile (homo faber) della Storia, artefice della propria fortuna, autore del primato della Cultura sulla Natura, laddove la Festa rimanda invece ai caratteri di una “felice evenienza” per l’Uomo realizzato come persona ludica (homo ludens), testimonianza del primato della “Libertà” sulla “Necessità”. Nella cultura della fede cristiana, l’Uomo incarna l’originaria “metafora” della Genesi, emulando il Dio biblico, Creatore e Signore di tutte le cose: il mito della Creazione rimanda al valore universale del Lavoro (sia che venga doverosamente compensato, sia che venga offerto quale servizio volontario alla Comunità) quale prova della somiglianza dell’Uomo con Dio, mentre l’immagine del Signore di tutto il creato richiama al valore universale della Festa quale momento di gioiosa contemplazione della bellezza “poetica” di ciò che, con il Lavoro, l’Uomo è capace di creare o di trasformare. La Domenica, nel significato attribuitole dalla ragione laica – che non a caso ne ha fatto l’ultimo giorno della settimana – è il giorno della Libertà (guadagnata col sudore della fronte) dagli impegni di lavoro e dalle regole convenzionali, il giorno dello svago e del gioco, della famiglia e della “compagnia” umana, del moto fisico e della convivenza sociale, svincolati dalle logiche di scambio come equilibrio “contabile” fra dare e avere, nonché della rottura simbolica e pratica delle catene imposte dalla “necessità” di lavorare. La Domenica, nel significato spirituale attribuitole dalla fede cristiana - che non a caso ne fa il primo giorno, e non l’ultimo, della settimana - è il giorno dedicato dall’Uomo a Dio, in cui egli incontra il suo Creatore, Gli si consegna e vive con Lui (attraverso la Parola e l’Eucaristia), e da Lui si lascia ricondurre al Mondo, animato da una sempre rinnovata capacità di offerta gratuita, di solidarietà, di amicizia, di per-dono, e appagato dalla contemplazione dell’opera di comune costruzione della Storia, che è il Lavoro, e che ne fa il giorno della pienezza della gioia e della riscoperta del significato più profondo del nostro esistere, personale e comunitario. Il Centro Commerciale Etnapolis di Valcorrente (CT) Con lo sviluppo vorticoso della società dei consumi, e la progressiva sostituzione dei templi religiosi e civili con quelli più “moderni” della grande distribuzione organizzata (Centri Commerciali), secondi solo a quelli ancor più grandiosi della Finanza, ed espressione materiale e artificiale della potenza dell’Uomo contemporaneo, i permessi per le aperture domenicali dei negozi, originariamente limitati ad alcuni periodi corrispondenti alle festività “lunghe” della comunità nazionale, sono stati via via estesi fino ad occupare quasi tutte le Domeniche dell’anno, e non solo nelle località di interesse turistico. La grande “festa dell’economia” e dei consumatori è quindi già cominciata, e ha trovato opportunità spazio-temporali inedite, surclassando la capacità evocativa e aggregativa della Domenica laica tradizionale e della Domenica religiosa, sostituendosi ad esse nella capacità di aggregare le persone, emozionarle, farle godere, liberarle e rimotivarle all’azione e alla contemplazione, in una ricerca apparentemente “libera”, ma in realtà fortemente condizionata e mistificante, del benessere individuale, della superficiale “festa dei sensi”, e conseguentemente dell’economia come mero profitto commerciale. Alcuni avanzano giustificazioni di ordine pratico, connesse alla difficoltà dei cittadini lavoratori di disporre del tempo infrasettimanale, occupato dai tempi di lavoro e di trasporto, per le necessità di acquisto personali e familiari; altri sottolineano la capacità positiva delle aperture domenicali dei negozi di favorire, sotto le volte protettive, le navate illuminate e le brezze climatizzate del tempio commerciale, la riaggregazione delle persone altrimenti disperse in attività ripetitive e solitarie, quasi sempre pervase dalla noia; altri ancora ne fanno una questione di moderna organizzazione dell’attività d’impresa, di adattamento del commercio alle esigenze diversificate della clientela, di libertà della “gente” di fare ciò che crede più consono alla propria visione della vita. E la battaglia sembra vinta in partenza, considerata la scarsa capacità degli altri “templi”, Famiglia, Società e Chiesa comprese, di riprodurre oggi il clima attrattivo della festa che la Domenica, da sempre, porta con sé. Si afferma così la festa di una rozza economia, che celebra i suoi sfarzi in questa sua capacità pervasiva di occupare tutte le ore di tutti i giorni di tutte le settimane dell’anno (anche in una cittadina come Ragusa, il 2 giugno - Festa della Repubblica, unica nell’anno – è stata la festa degli acquisti nei nuovi centri commerciali), e nel contempo di svuotare le tasche ben oltre i confini del bisogno reale e delle disponibilità finanziarie, candidando con successo i suoi templi al ruolo di “contenitore asettico” di ogni tensione contemplativa e di ogni bisogno di festosità, che si apre ad ogni soluzione desiderata (quando vedremo una cappella in una GDO, o una Festa di famiglia o fra amici dietro una vetrina commerciale?). Io credo che l’apertura domenicale dei negozi, specie se non compensata dalla chiusura in altri momenti della settimana, non può non svuotare il significato stesso della Festa, quale espressione di relazioni gratuite fra le persone, che affermi la libertà e l’autonomia dell’Uomo dalle culture della compravendita, salvaguardando valori e sentimenti genuini che la fatica quotidiana del Lavoro e l’impegno totalizzante dell’attività d’Impresa non facilmente riescono a concedere durante la settimana. Non è solo questione di tutela dei diritti sindacali (superabile con il meccanismo dei turni di lavoro, sebbene solo nei negozi più grandi e strutturati), né questione di rispetto formale per la tradizione religiosa e per quella familiare della maggioranza della popolazione (esistono infatti religioni che vivono la Festa in giorni diversi dalla Domenica, e famiglie o comitive che tornano quantomeno a incontrarsi nei grandi magazzini, superando così la chiusura domestica davanti a vuote trasmissioni televisive), e neppure antistorica protesta di piccoli imprenditori commerciali che, vittime del loro miope individualismo, non hanno saputo costruire in tempo un argine o un’alternativa intelligente e culturalmente più nobile nei centri storici delle città, ma è questione di fedeltà alla natura più profonda dell’Uomo e di rispetto della verità e autenticità della Festa. Una Festa che non avrebbe forse bisogno neppure della Domenica quale “tempo sacro” in astratto, da tempo logorato nel suo significato originario, purché nel cuore e nella mente dell’Uomo potesse continuare a vivere, quale espressione della sua intima natura, la dimensione oblativa come dono reciproco di Sé all’Altro, nella gioia del Noi. Non sarà quindi mai Festa il gioco del dare e dell’avere, poiché la Festa non è godimento egoistico di un “possesso” crescente, surrogato eccitante ed effimero della gioia di vivere, triste transumanza su piazze artificiali, ma gratuita e poetica elaborazione della sofferenza che quel “dare e avere” comporta nella quotidiana esistenza di ogni uomo e di ogni donna. La vera Festa dell’Economia comincia quando riusciamo a produrre profitto senza distruggere ciò che l’Uomo è capace di generare di ben più elevato del profitto.
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