Febbraio 2008

IL LAVORO, PRIMO DIRITTO

Oltre il flessibilismo ideologico del mercatismo “radicale e liberista”...


Luciano Nicastro

Di questi tempi per il lavoro si è tornati a lottare. I giovani francesi sono scesi in piazza contro la precarietà in nome di un diritto ad esistere pubblicamente con dignità e a progettare nella libertà la propria vita con il proprio lavoro. Dopo la Francia, la Spagna, l’Italia. La società europea sta incominciando a scoprire che devono essere ancora riconosciuti “de jure” una nuova famiglia di diritti sociali “quelli di generazione” (cfr. il mio “Il marzo francese” in “Affari Italiani” – ed in “Opera incerta” - mensile on line). I giovani, il vero capitale “umano” di investimento per il futuro di un Paese, sono ancora esclusi infatti da percorsi certi e lineari di lavoro e di cittadinanza con l’ideologia del flessibilismo e con la legislazione di primo impiego perché manca una cultura alternativa di tipo “personalistico e comunitario” (E. Mounier) ed una normativa di quadro sistemico più innovativa e coraggiosa sul piano giuridico, economico e politico rispetto al liberismo “giuslavorativo”. Appunto perché il lavoro non è solo un simbolo di appartenenza ideale alla società produttiva né una retorica memoria storica di lotte e sacrifici ma una chiave di comprensione del benessere integrale di una società, a misura di libertà e di giustizia sociale, deve essere liberato in profondità e non solo in superficie. Nell’attuale contesto storico e legale, il lavoro, ancora ingabbiato in una condizione di emarginazione e di sfruttamento, anela alla libertà e alla sua piena valorizzazione sociale ed economica. Dopo il diritto alla vita è il primo diritto ontologico della persona avente spessore esistenziale e vocazionale di libertà ed uguaglianza sul piano etico e sociale, una connotazione “spirituale” integrale e non solo economica fondamentale. Tra l’altro ha anche “radici religiose” nel vincolo della creazione dell’uomo, fatto ad immagine e somiglianza di Dio, e nella Redenzione di Cristo che porta a compimento, con la sua passione e morte, il progetto salvifico del Padre che vuole tutti gli uomini “uguali e giusti, liberi e fratelli” per amore. Se il diritto al lavoro è stato centrale e “costituzionale” nella nascita della nostra democrazia repubblicana vuol dire che è la prima dignità sociale e normativa da affermare. Sul lavoro si deve fondare la vita della Repubblica e sui valori e le virtù dell’onesto lavoro si deve sviluppare il suo progresso materiale e spirituale. Il lavoro, primo diritto di cittadinanza, è stato annunciato dal nuovo governo Prodi come la prima nuova urgenza, come una priorità economica e sociale. Non basta quindi estendere i diritti del lavoro verso condizioni di sicurezza e di gratificazione, bisognerà cambiare la cultura condivisa e l’etica pubblica di riconoscimento valoriale. Nel Mondo un miliardo di persone sono disoccupate o utilizzate in lavori precari. Di esse il 60% sono donne. Più di 200 milioni di bambini sono costretti a lavorare. Dove manca il lavoro non ci sono le condizioni reali della vera cittadinanza. Anche in Italia il divario del Sud dal Nord ha incominciato ad allargarsi su questo cuneo del lavoro. La disoccupazione in alcune zone sfiora il 20%. Le piccole aziende a tecnologia avanzata tengono con difficoltà il mercato e tendono a risparmiare sul costo del lavoro. La politica della diminuzione del “cuneo fiscale”, promessa e annunciata dal centro sinistra, verrebbe incontro a questo bisogno convergente dei lavoratori e dei datori di lavoro. Bisogna però “rifondare” eticamente e culturalmente la Repubblica sul lavoro. Il Sud ha bisogno di innovazione e di lavoro per le sue donne e per i suoi giovani. Su questo capitale umano bisogna investire di più, consegnando sin dall’età giovanile dell’apprendistato la “bisaccia della buona e piena occupazione”, che deve poter contenere salario di ingresso con un pacchetto di qualifiche “progressive”, spendibili e polivalenti, che hanno come meta di percorso il lavoro a tempo indeterminato per una occupazione “produttiva” e non solo un parcheggio “di forza lavoro”. La cosiddetta fiscalità di vantaggio dovrebbe favorire maggiori assunzioni a tempo indeterminato. Non si tratta di abrogare la legge Biagi ma di variarne la destinazione di uso come legge della “flessibilità di ingresso”, come via di primo lavoro, che consente per un massimo di tre anni un percorso di orientamento, ricerca e verifica occupazionale. Bisogna invece in modo complementare varare “un’altra legge organica” sui diritti del lavoro e del lavoratore in termini di progressione o regressione nelle mansioni per merito e non solo per anzianità ed un’altra legge di sostegno alle aziende produttive che, innovando iniziative di formazione in azienda e collegamento in rete di marketing, occupano più lavoratori a tempo indeterminato. Per competere ci vuole più qualità di processo e di prodotto e maggiore investimento in termini di formazione nelle qualifiche di ingresso e medie / alte (riqualificando i centri di formazione professionale polivalenti nelle città!). Per creare più ricchezza e dividendi ci vuole più identificazione di scopo e partecipazione di progetto. Bisogna ripristinare quindi una politica dei redditi concertata ed una politica pubblica (statale e sociale) di controllo dei prezzi e delle tariffe, una vera liberalizzazione del mercato di vendita, non la eliminazione di ogni controllo sui prezzi (fissando il minimo e il massimo) come è avvenuto con la vicenda dell’introduzione dell’euro. La coesione sociale attraverso il lavoro è la nuova via del consenso democratico alle istituzioni repubblicane e democratiche. Ciò deve essere la nota di discontinuità e di continuità del nuovo governo Prodi con quello precedente di Berlusconi. Serve ricordare l’analisi dello scomparso John Kenneth Galbraith autore de “La società opulenta” e di “La società affluente” (grande quantità di benessere per i singoli a scapito di importanti esigenze sociali!) quando invocava un livello politico adeguato alla nuova complessità sociale. La società della ricchezza privata e della miseria pubblica non consente un rapporto equo tra economia e democrazia a livello di etica pubblica. Se si sconfiggesse la precarietà di scopo non ci sarebbe più concorrenza sleale né clientelismo selvaggio e si bonificherebbe anche il costume politico soprattutto nelle regioni del Sud dell’Italia. La precarietà mette gli uni in concorrenza “cinica” con gli altri e favorisce la mortalità occupazionale degli uni a vantaggio del successo o della salvezza degli altri. La precarietà, pur essendo una condizione comune, non porta a fraternizzare ma a competere di più sino alla “guerra tra i poveri” o alla frantumazione sociale, tipiche della cultura del liberismo e del globalismo nel Mondo, presenti per imitazione anche in Italia. E’ ancora il valore sociale, culturale e spirituale del lavoro ad essere messo in discussione. “Nel mese di gennaio 2006 ci sono state in Italia 900 mila ore di sciopero di cui oltre 800 mila dei soli metalmeccanici che così hanno conquistato il contratto” (cfr. “Liberazione”, 1 maggio 2006, p. 1). E’ grave e dannoso sul piano economico, sociale e sindacale che per il rinnovo dei contratti di lavoro si debbano fare tanti scioperi, per inadempienze nei tempi di rinnovo e per mancata attuazione delle precedenti statuizioni contrattuali. Ci vorrebbe una sanzione amministrativa pubblica per il mancato rinnovo, senza giusta causa, verso i datori di lavoro e/o nei confronti dei Sindacati da parte di una apposita Autority. Per difendere veramente i salari si rende necessaria una nuova scala mobile a doppia partita, quella del costo della vita, del costo del lavoro, del profitto e delle ore lavorate, garantendo in ogni caso la sicurezza del lavoro e rifiutando la competitività come unica ragione della produzione, come oggi ritorna ancora culturalmente e politicamente di moda. Si tratta di rifiutare il flessibilismo ideologico del mercatismo “radicale e liberista” senza un pilota istituzionale di scopo e di compatibilità sociale, senza un vero arbitro di mediazione fra le parti come era una volta il Ministro del Lavoro. Nel caso del nostro Paese per uscire dalla precarietà “selvaggia” che impazza, secondo Raffaele Bonanni, Segretario generale della CISL, bisogna “premiare quelle imprese che assumono con contratti a tempo indeterminato e innalzare le tutele per i lavoratori temporanei con l’unificazione dei livelli contributivi” (cfr. Il Sole 24 ore,14 maggio 2006, p. 2). Non è quindi la legge Biagi l’attesa legge “organica” sul lavoro ma è una prima legge positiva sulla flessibilità del primo lavoro. In questo senso essa è condizione necessaria ma non sufficiente. Anche in Spagna si cerca un accordo con il metodo della concertazione per ridurre la precarietà nel mercato del lavoro soprattutto fra i giovani (cfr. Mino Vignolo, La concertazione di Zapatero, in “Corriere della Sera”, 10 maggio 2006, p. 37). L’ipotesi riguarda questa soluzione: dopo due contratti precari l’obbligo, per la stessa azienda, di stipulare un contratto a tempo indeterminato e ciò viene incentivato con finanziamenti statali e con una maggiore facilità di licenziamento. Su questa base si cerca di trasformare “un milione e mezzo di contratti a termine in altrettanti contratti a tempo indeterminato”. Per accompagnare il buon andamento dell’economia si ricorre anche a sgravi fiscali sui contributi sociali. Il ricorso però alle clausole di licenziamento è un duro colpo alla cultura del lavoro come diritto. Il nodo è ancora il problema del licenziamento sbandierato come minaccia sempre “incombente” per aumentare la produttività a qualunque condizione di precarietà. Il ricorso, come nei metalmeccanici, all’ipotesi di lavorare di più anche il sabato e financo la domenica introduce una diversa cultura del lavoro come unico scopo della economia e della vita, e non come opportunità progettuale di sviluppo dignitoso di una vita professionale a misura d’uomo. La via più semplice, più umana e più economica è la flessibilità di ingresso con la occupazione a tempo indeterminato come fine prossimo del percorso. Il problema della compatibilità economica di sistema si può risolvere con gli ammortizzatori sociali come dotazione delle Aziende e questi potrebbero essere pensati come finanziamento straordinario di strutture di stand by delle mansioni produttive per un periodo di ricerca, riformazione e riconversione produttiva e limitatamente ad esso. Le micro imprese e la piccola imprenditorialità attuali (il popolo delle partite IVA…) vanno messe in rete in un circuito virtuoso che dalla flessibilità portano non alla precarietà ma alla stabilità occupazionale a tempo indeterminato in strutture lavorative e imprenditoriali nuove. Su questo problema il Paese ed i giovani in particolare attendono al varco il nuovo esecutivo nazionale, il Ministero Prodi. Su questo tema non si possono fare sconti al nuovo governo, né consentire logiche dei due tempi, ma solo processualità lineari e coerenti sciogliendo da subito il nodo del valore della cosiddetta legge Biagi senza demonizzazione o mitizzazione preventive. Si pretende giustamente dai giovani, e da quelli meridionali in particolare, dal nuovo Governo un segnale forte di sensibilità umana e di giustizia sociale. Attraverso una concertazione “governante e non paralizzante” viene invocata una via strategica di sviluppo a favore dei giovani per il primo lavoro e delle famiglie per un primo reddito garantito con una normativa di fiducia e di prospettiva. Queste sono le priorità di quadro come la Scuola, la Difesa, gli Esteri, etc. ci vuole su questo punto un Governo che inizi a governare promuovendo una fase di ripresa dei diritti del mondo del lavoro e della produzione, che riconosca sia nella creatività dell’impresa che nel diritto al lavoro, ad una intera generazione di giovani, il valore aggiunto del Sistema Paese per la competizione globale a condizioni giuste e sostenibili sul piano umano, rivoluzionando il sistema della formazione professionale e dell’inserimento lavorativo e sostenendo le ristrutturazioni produttive in atto con una politica selettiva non assistenzialistica. Si tratta di innervare non solo una nuova generazione di imprenditori ma di promuovere una diversa socializzazione “lavorativa”, con un investimento di risorse maggiori a livello pubblico e con una lotta più forte al lavoro nero e precario sul piano della giustizia sociale.