Nel cortile di una casa di legno e metallo, lontana pochi chilometri da Reggio Emilia, bimbi di età diverse giocano con un cerchio che a turno fanno girare attorno alla vita. A un angolo del giardino, come a delimitare la proprietà, un cavallino da giostra si erige su un palo. Catia sulla soglia mi guarda da lontano esile e austera. I tratti taglienti del viso si ammorbidiscono fino a perdersi completamente in un sorriso aperto quando mi avvicino. «Sei la benvenuta in questa casa» mi dice. Catia ha un’età indefinibile, quando ride ha la freschezza di una ragazzina, quando si fa seria sul volto compaiono i segni di una vita difficile. Vladimiro si siede a capotavola. Attorno ci sono quattro dei suoi figli e Charlie, un sinti di un campo nomadi poco distante. «Questo è un piatto sinti, - mi spiega Vladimiro mentre una delle sue figlie mi mette davanti un piatto fumante, – gallina fatta cuocere con aglio cipolla e verdure. Con il sughetto che ne viene fuori si condisce la pasta che diventa brodosa, è pasta e minestra insieme, a parte si mangia il pollo». A tavola sono l’unica donna. Catia e le sue figlie sono ancora affaccendate in cucina, di tanto in tanto si avvicinano per portare pietanze o altri piatti puliti. «Non mangiate con noi?», Chiedo istintivamente a Catia che è la più indaffarata a servirci, «no, noi mangiamo dopo» mi risponde secca. Vladimiro mi spiega che tra i sinti esistono compiti ben precisi: «Da noi le donne si occupano della casa – dice –, gli uomini pensano al resto, che non manchi niente alla famiglia. Da noi l’uomo non aiuta in casa come fanno i gagi». Una delle figlie si siede sul divano di fronte al tavolo con un piatto di pasta tra le mani. Mangiano in fretta, questo mi impedisce di prendere ancora un po’ di quel gustosissimo cibo perchè gli altri hanno già finito di mangiare. Parliamo dei sinti, dei loro diritti negati dell’associazione Them Romanò attraverso la quale da dieci anni Vladimiro si batte per dare ai nomadi una vita più dignitosa. Intanto le donne sparecchiano e c’è un via vai di bambini. E’ allora che Catia comincia a parlarmi con una semplicità e un’ironia disarmanti. «Sai quanti figli ho?» Mi chiede, e senza aspettare risposta dice: «Quindici, e diciannove nipoti. Quando ho sposato Vladimiro lui aveva quindici anni, io quattordici – e fa un gesto, come per tagliarsi la gola, che fa sogghignare tutti i presenti -. E poi a quei tempi la televisione non c’era e allora dagli che gli si dava» e comincia a ridere rumorosamente. La sua carica vitale spegne ogni tentativo di Vladimiro di sviare il discorso. Le due donne che fino ad allora erano rimaste in silenzio mi chiedono qualcosa, in realtà hanno voglia di parlare di sé, di raccontarmi l’orgoglio di essere donne sinti, della difficoltà di affrontare quotidianamente i pregiudizi. «Io ho lavorato presso una famiglia di gagi come donna delle pulizie – mi racconta una delle nuore di Catia e Vladimiro -, ho superato un periodo di prova e mi hanno assunta regolarmente. Poi i miei datori di lavoro hanno scoperto che sono una sinti, allora mi hanno licenziata senza alcun preavviso e senza nessuna spiegazione. Ora sono senza lavoro». L’altra donna mi racconta che lavora in un supermercato, il lavoro le piace ma vive ogni giorno nel terrore che possano scoprire le sue origini e licenziarla. «Per noi non è facile, – confessa-. L’unico lavoro che possiamo fare noi donne sinti è quello di vendere fiori porta a porta, ma il guadagno è misero. Se lavoriamo per i gagi possono licenziarci quando vogliono perché non abbiamo mai fatto rispettare i nostri diritti, non abbiamo mai saputo quali fossero. Se oggi li conosciamo è solo grazie a Vladimiro che si occupa di noi». Poi mi chiede di me, quando le dico che sono siciliana mi butta addosso uno sguardo di compassione e una frase: «Anche per voi dev’essere difficile». Catia è convinta che le cose cambieranno, anche lei, a fianco di Vladimiro, si batte per la sua gente, sembrano il re e la regina dei rom venuti fuori da una leggenda zingara. «Un giorno vinceremo la nostra battaglia, - dice Catia -, usciremo dalla segregazione e lo faremo sempre pacificamente e con rispetto, come sappiamo fare noi sinti». Quando me ne vado Catia mi abbraccia e mi augura buona fortuna. Vladimiro mi accompagna in due dei campi nomadi della provincia di Reggio Emilia. Il primo è a Bagnolo in Piano, affollato dalle roulotte disposte a pochissimi metri l’una dall’altra, in mezzo giocano i bambini, gli adulti sono affaccendati e si muovono svelti. Nel campo di Roncocesi invece le roulotte non sono stipate, a parte una bambina che spazza davanti a una baracca e una donna che stende il bucato non c’è nessuno. Mi fermo a guardare una bancarella dello zucchero filato, quando da piccola la vedevo alle feste di paese o accanto alle giostre non pensavo che potesse provenire da posti come questi. Vladimiro mi conduce davanti a una minuscola casa col tetto spiovente, ora la sua espressione diventa ancora più seria e rispettosa: «Questa è la nostra chiesa - mi dice fiero –. Noi siamo molto religiosi, i nostri pastori ora sono via, girano per tutti i campi a dare conforto e aiuto alla nostra gente, a cercare di recuperare quei ragazzi che non ci ascoltano più, che hanno perso la speranza o che fanno uso di droga. Non è facile per gli adolescenti vivere segregati in un campo, allontanati, emarginati, mal visti dai gagi». Ora un gruppo di uomini incuriositi dalla mia presenza è uscito dalle roulotte, altri, diffidenti, rimangono sulla soglia sotto tettoie improvvisate. Vladimiro si avvicina al crocchio di uomini, si salutano calorosamente poi spiega le ragioni della mia presenza lì. Ora tutti hanno voglia di parlare. Dennis ha 34 anni, è sposato e ha un figlio di quattro anni. Ha l’aria troppo matura per la sua età, mi rivela orgoglioso che la bancarella dello zucchero filato è sua, quando non è in giro con quella và a raccogliere ferro vecchio, un lavoro molto diffuso tra i nomadi. Parla con tono pacato, ha gli occhi buoni e un sorriso gentile: «Il nostro sogno è quello di abitare in case normali, ma non possiamo andare in affitto nelle case dei gagi perché non ci vogliono. Se un nomade va ad abitare in un quartiere di gagi tutte le case attorno perdono valore d’acquisto perché nessuno vuole più viverci, così ci ghettizzano lontani dai centri abitati». La speranza di Dennis è che suo figlio possa crescere in una vera casa, crede che questo un giorno si possa realizzare. «I prestiti non ce li concedono – continua Dennis - perché non possediamo niente, non possiamo garantire, inoltre ci permettono di fare solo quei lavori che i gagi non vogliono fare, lavori in cui si fatica molto ma non si guadagna abbastanza. Bisognerebbe istituire dei mutui speciali, senza garanzie immediate, per permetterci di comprare un pezzo di terra su cui costruire una casa». Quando ci allontaniamo Vladimiro mi spiega che molti sinti sono sfiduciati ormai, sono sempre in meno a credere, come Dennis, che i gagi, i non nomadi, i sedentari un giorno possano realmente imparare a vivere fianco a fianco con loro, senza discriminazioni, riconoscendoli cittadini italiani e, soprattutto, rispettando i loro diritti umani.
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