È piuttosto difficile evitare luoghi comuni ed il senso di fastidio quando si tratta di affrontare un argomento come quello della «cultura» o, sarebbe il caso di dire, quello delle culture. Si rifletta sull’uso volontario del plurale. Di fronte ad una società multietnica come la nostra, attraversata da linguaggi e credenze, religioni e culture, pervasa poi dal «tutto culturale» ove spesso s’insidia la «sconfitta del pensiero» [Finkielkraut 1987], non si può non parlare di culture con riflessi, come ci auguriamo che accada, anche nella terminologia istituzionale: abbandonare una volta per tutte la formula «assessorato alla cultura» per «assessorato alle culture»... e la stessa cosa dovrebbe valere per la pubblica istruzione: le scuole o, ancora meglio, la formazione. Ma in politica, in specie quella istituzionale, i cambiamenti anche lessicali, perché si avverino, occorre una «svolta epocale». Quanto ai luoghi comuni prestate attenzione già al lessico dei politici: «politica culturale», «rilancio del turismo attraverso la cultura», «sinergia tra cultura, artigianato e turismo» e tante altre dicerie o intercalari tipici sciorinati in occasione delle tante «sagre» (dalla sagra del carciofo a quella della focaccia, dalla mostarda al beccume per galline e così via). Ma nessuno ha potuto calcolare la ricaduta in termini economici e culturali (nel senso di coesione di una comunità, di crescita del sapere) di queste «sagre» o degli innumerevoli «festival» (pensiamo a quelli canori, alle sfilate di mode, ai premi letterari e così via). Quanto al fastidio si pensi all’atteggiamento di quanti sostengono che «con la cultura non si lavora e non si mangia». Un detto che nasce da un atteggiamento atavico. Affonda le radici nell’ideologia liberista del Settecento. Si pensi ad Adam Smith o a David Ricardo, secondo cui la spesa per le arti è rivolta alle attività del tempo libero e non può contribuire alla ricchezza dello Stato. Smith nella Ricchezza delle nazioni vede la cultura come l’ambito del lavoro non produttivo: «La loro opera [quella degli artisti/intellettuali…dei lavoratori non produttivi sic! n.d.a.] come la recita dell’attore, l’eloquio dell’oratore o gli accordi del musicista, svanisce nel momento stesso in cui viene prodotta» [Smith 1776]. Egli tuttavia sottolinea il carattere particolare del lavoro artistico che ha bisogno di investimenti di lungo periodo e perciò molto costosi incidendo negativamente in «breve durata» sul bilancio dello Stato, positivamente, ma a «lunga durata», sull’educazione del popolo [ivi]. Anche nel modello keynesiano [Keynes 1936], la suddivisione del reddito tra consumo e risparmio in relazione ad una politica di piena occupazione [ovvero un capitalismo corretto e integrato dallo Stato attraverso l’intervento pubblico; n.d.a.], l’approccio economico alla cultura è trascurato se non omesso, il quale tuttavia non esita a prendere posizione contro i metodi prevalenti dell’epoca, asserendo l’utilità degli investimenti sulle opere d’arte da parte dello Stato [Ivi]. Evitando sia l’uno e l’altro estremo (luoghi comuni e fastidio) almeno ce lo auguriamo, tenteremo di tracciare alcune linee generali o, in maniera più modesta, porre alcuni elementi di riflessione. Pur non potendo ancora parlare propriamente di analisi economica del settore culturale, convincendo i diffidenti e liquidando quell’atteggiamento di fastidio legato all’inutilità della cultura, mentre al contrario si tenta di convincere sull’utilità degli investimenti nella cultura, dobbiamo attendere gli anni Settanta (e principalmente gli anni Ottanta) per vedere progressivamente emergere concetti e programmi che costituiranno la base dell’economia della cultura. Kenneth Building considera le arti (dunque la cultura) come un mezzo per creare e far circolare l’informazione [Building 1978]; John Galbraith prevede che le arti siano chiamate ad assumere un’importanza economica crescente [Galbraith 1973]; ma saranno soprattutto i lavori di William Baumol e William Bowen, di Gary Becker e di Allan Peacock e della scuola di Public Choice che tracceranno le linee della futura economia della cultura [Baumol/Bowen 1966 e 1986; Becker 1982; Peacock 1991] contribuendovi tre fondamentali fattori: lo sviluppo della propensione a generare flussi di reddito e di occupazione; il bisogno di valutare le decisioni in materia di cultura; l’applicazione dell’economia politica a nuovi settori (economia delle attività ricreative, revisione del presupposto di razionalità, economia dell’informazione). L’economia della cultura diventa il terreno privilegiato per la verifica empirica di nuove idee e di ogni DPEF (documento di programmazione economica e finanziaria). Mark Blaug scrive in modo perentorio: «L’economia dell’arte costituisce una sorta di terreno di sperimentazione dell’adeguatezza dei fondamentali concetti economici» [Blaug 1976]. Non è questa la sede per un’analisi della «domanda» e della «offerta» di cultura che in questi decenni sono andate mutando [rinviamo a Benhamou 2001], dall’offerta di spettacolo dal vivo a quella delle mostre sull’arte fino all’economia dei musei e del patrimonio artistico. Dati estremamente positivi si sono raggiunti durante il dicastero Veltroni-Melandri: orario prolungato dei musei; inserimento di nuove figure professionali; reclutamento nel settore culturale dei lavoratori precari e atipici; legge sul cinema; finanziamenti per il restauro e il ripristino dei beni monumentali e architettonici (Villa Borghese, Pinacoteca Nazionale di Bologna e di Brera; Conservatori musicali). Il problema, e manco a dirlo il fallimento di quella politica culturale, è che essa risultava sganciata da altri provvedimenti che incidessero nella struttura economica (occupazione, redistribuzione del reddito, aumento della base occupazionale, riconversione). E non occorre nemmeno risalire indietro negli anni, vengono in mente le estati romane dell’èra Niccolini (l’effimero), assessore alla cultura del Comune di Roma, per trovare un antecedente teorico e pratico dell’economia della cultura. Qualunque sia l’ambito, l’intervento dello Stato, molto spesso controverso, contribuisce a modellare l’offerta e ad influenzare la domanda. Questo almeno accade nei Paesi cosiddetti evoluti (dalla Spagna alla Germania, dalla Danimarca alla Francia), nella quale la programmazione e il capitolo degli interventi nel campo culturale è piuttosto consistente. Si pensi solo alla Francia che destina l’1 % del proprio bilancio alla cultura, mentre in Italia siamo vicini allo 0,34 % con la previsione di ulteriori tagli dei trasferimenti a istituti, musei e archivi (al punto da rischiare la morosità per il mancato pagamento delle bollette luce e telefono: La Repubblica, 13 ottobre 2003). Dato molto triste e amaro se si pensa che quasi l’80 % degli introiti dello Stato italiano è legato al turismo culturale, dunque alla «fruizione» dei luoghi (paesaggistici, naturali, culturali, artistici). Da queste premesse, indispensabili per l’economia e la prospettiva del nostro discorso, alla tesi di fondo: fino a quando concepiremo la cultura come un valore aggiunto e finalizzato al consumo hic et nunc e non piuttosto all’economia della cultura, ogni politica culturale è destinata al fallimento e con essa l’intera comunità dei cittadini (e degli artisti). Si rifletta che le critiche (e spesso i fallimenti connessi) alle politiche culturali ruotano attorno a tre temi: in primo luogo, l’incapacità delle istituzioni sia nei confronti del funzionamento del mercato culturale, sia in termini di programmazione (a media e lunga durata) e, congiunta ad essa, l’assenza di obiettivi; in secondo luogo, gli effetti antiredistributivi delle sovvenzioni (o dei contributi) concessi e, infine, in terzo luogo, la sopravvalutazione delle “esternalità” positive (ovvero dei servizi esterni affidati ad imprese private). Formuleremo due ipotesi operative. 1) Sulla fruizione dell’arte come contemplazione estetica attraverso la «conservazione» e il «recupero» dell’arte. Torniamo ancora ad Adam Smith da cui il nostro discorso è partito. «I meravigliosi palazzi, le magnifiche case di campagna, le grandi biblioteche, le ricche collezioni di statue, di dipinti e le altre curiosità del mondo dell’arte e della natura sono spesso ornamento e gloria, non solo del luogo che le accoglie, ma anche di tutto il paese. Versailles rende più bella la Francia e le rende onore, così come Stowe e Wilton all’Inghilterra». Così sosteneva Smith [in La ricchezza delle nazioni, cit., p. 182] che sottolineava già il valore positivo degli investimenti sulla cultura. Ogni discorso intorno e su politica culturale che miri all’«ornamento e alla gloria» dei luoghi, attraverso gli interventi di recupero e conservazione (legati indissolubilmente alla fruizione), non può prescindere anche da una teoria estetica o, se il termine è troppo forte, da una consapevolezza estetica (che speriamo possa agire nell’amministratore come nel cittadino). Dobbiamo mettere a dura prova la pazienza (e l’attenzione) del lettore anche per pochi istanti. Parliamo dell’arte (dall’architettura alla scultura, dalla pittura alla poesia) e intendiamo subito fissare un presupposto teorico seguendo (e condividendo) in questo l’esteta e storico dell’arte Henri Focillon (1881-1943). Quanto egli cercò di fare, nella sua attività di storico dell’arte e di docente, fu di proporre una sorta di morfologia genetica delle forme artistiche, privilegiando nel contempo gli aspetti formali nei vari campi delle attività umane. Una frase di Balzac «Tout est forme, et la vie même est une forme» citata all’inizio di Vie des Formes, indica la direzione principale della ricerca di Focillon mentre i comuni aspetti formali del fatto artistico e del fatto sociale sono messi in evidenza: «Reconnaissons que le fait artistique et le fait social preséntent un caractére commun. L’un et l’autre sont éminemment formels». Seguiamo più da vicino Focillon (nell’edizione italiana curata da E. Castelnuovo): «L’opera d’arte è un tentativo verso l’unico; s’afferma come un tutto, come un assoluto; e, nello stesso tempo, fa parte di un sistema di relazioni complesse […] in essa si vedono anche convergere le energie della civiltà. Infine (per rispettare i termini di un’antica contrapposizione soltanto apparente) è materia e spirito, è forma e contenuto […] Tuttavia. Per proseguire lo studio, bisognerebbe provvisoriamente isolarla. Così avremmo l’opportunità d’imparare a vederla, giacché essa è fatta in primo luogo per essere veduta: lo spazio è il suo dominio, non lo spazio dell’attività comune, quella dello stratega e del turista, ma lo spazio trattato da una tecnica che si definisce come materia e come movimento. L’opera d’arte è misura dello spazio, è forma […] Balzac, in uno dei suoi trattati politici, scrive “Tutto è forma, e la vita stessa è una forma”. Non soltanto ogni attività viene scoperta e definita nella misura della forma che essa assume […] ma anche la vita agisce essenzialmente come creatrice di forme. La vita è forma, e la forma è il mondo della vita […] Lo stesso si può dire dell’arte Le relazioni formali in un’opera e tra le opere costituiscono un ordine, una metafora dell’universo […] Dobbiamo vedere la forma in tutta la sua pienezza e sotto tutti i suoi aspetti: come costruzione dello spazio e della materia, sia che si manifesti attraverso l’equilibrio delle masse, e le variazioni dal chiaro allo scuro, il tono, la macchia, il tocco; sia che venga architettata, scolpita, dipinta o incisa […] l’opera d’arte non esiste che in una forma» [H. Focillon, La vita delle forme, Torino, Einaudi, 1990, pp. 4-5]. Non per amore di sintesi o di conciliazione ad ogni costo, ma queste «scorrerie» nel campo dell’estetica e della storia dell’arte attraverso Focillon, se da un lato contribuiscono a chiarire qual è l’elemento fondamentale dell’arte e quindi a leggere (comprendere) l’arte (al di là delle note contrapposizioni fra contenuto e forma di tradizione idealista, della prevalenza della funzione morale e sociale dell’opera d’arte sul contenuto subiettivo dell’artista), dall’altro ci inducono ad avvalorare la scelta di un investimento culturale in termini di fruizione (godibilità estetica) e di valorizzazione delle forme d’arte attraverso un intervento di restauro e/o la perfetta conservazione. Ha prevalso sempre una concezione statica del bene culturale, piuttosto che una concezione dinamica volta a promuovere il «bene» essenzialmente come «attività». La produzione e il consumo di beni culturali (anche una chiesa appena restaurata, un dipinto, un colonnato, un quartiere barocco o liberty) intesi nella loro dinamicità, hanno effetti positivi sulla società, per il contributo che essi apportano alla coesione sociale e alla formazione degli uomini. Qui risiede l’unica tesi valida (oltre che l’efficacia e la giustificazione) dell’operato politico attraverso l’investimento di denaro pubblico: è necessario educare alla predisposizione estetica degli uomini ed essi riceveranno molto più in termini di benessere. Questo effetto positivo non sempre viene percepito dai cittadini ( o dall’uomo di strada); i beni devono allora essere messi «sotto tutela» e lo Stato come il Comune deve farsi carico di stimolare la loro produzione e il loro consumo. L’esenzione d’imposta o la detrazione delle tasse da parte delle imprese private che investono nel restauro e nella conservazione di opere d’arte (quante imprese private, piccole e grandi, del Sud e della nostra provincia, sono messe al corrente del decreto legge del 2000?), quando i fondi pubblici non sono sufficienti, deriva così dalla funzione educativa che essi svolgono. È vero che nel nostro territorio sono state realizzate importanti opere di restauro (anche di ristrutturazione): pensiamo al Castello di Donnafugata. Ma se l’amministrazione comunale e l’intero consiglio comunale proponesse e approvasse un regolamento attraverso cui si potrebbero rifare le facciate esterne delle abitazioni private a Ragusa Ibla (con criteri estetici rispettabili), elargendo fondi attraverso un contributo pari al 30 % (a fondo perduto) delle spese occorrenti, le ricadute in termini economici e occupazionali (pensiamo al lavoro di pittori, di artigiani e così via) sarebbero estremamente positive. Ma contribuiremo sicuramente alla dimensione estetica, poiché la città, anche un quartiere, deve essere vivibile e allietare anche visivamente. Sembra allora imporsi la conclusione: spendere per la cultura significa agire a favore della vita economica. 2) Sull’evento. Altra forma del godimento estetico e della coesione sociale. La cultura abbonda di situazioni nelle quali la razionalità dei comportamenti si accompagna alla passione, dove la constatazione di allontanamento della cultura in rapporto al mercato suscita paradossalmente riserve e polemiche sulla fondatezza di un suo riavvicinamento. Se da un lato la chiusura in una logica di specificità della cultura porta a trasformarla in un campo fuori del tempo (come vorrebbero alcuni “eletti” o una schiera di radical chic), al contrario, l’inserimento dell’economia della cultura in una riflessione più generale sulla razionalità (e sulle scelte da fare), ci sembra possa costituire la sua strada futura. È ovvio che non possiamo «testare» gli eventi culturali in base allo «share» che essi ottengono perché si possa ottenere un utile (economico per l’impresa; politico per l’amministrazione che lo promuove). Il pubblico che affolla un concerto di Gigi D’Alessio o di Carmen Consoli (evitando ogni giudizio di valutazione), che accorre numeroso ad un concerto di Claudio Baglioni o ad una rassegna di moda, non è lo stesso (numericamente parlando) che assiste (sparuto) ad un concerto per archi o per oboe, o a Claudio Lolli, o alla presentazione di un libro (alternativo o di protesta) edito da una minuscola casa editrice. Questa logica, che denuncia la sua matrice d’appartenenza alla Mediaset (e di cui il servizio pubblico della RAI è afflitto), è fuorviante e non ci aiuta a comprendere il fenomeno «evento» come consumo artistico e culturale. Il problema va visto e impostato, secondo chi scrive, non nella affluenza del pubblico ma nel «contesto» in cui quell’evento è collocato e per gli effetti che quell’evento può produrre nel tessuto culturale della città. È difficile al giorno d’oggi essere innovativi o sperimentare nuove vie di consumo culturale infestati da un’orgia di eventi festaioli. Ed è difficile evitare l’effimero (che pure ha avuto e continua ad avere effetti positivi). Bisogna avere l’audacia e l’inventiva necessarie affinché il singolo evento (di successo) possa collocarsi in una cornice (o programma) che miri sostanzialmente alla formazione del gusto estetico e alla coesione sociale. Questo è già un investimento economico. Pensare ad esempio ad una rassegna delle arti, in cui trovino posto cinema, teatro, danza, poesia, insomma linguaggi e tecniche dell’arte, rassegna in cui l’autore affermato possa essere anche maestro, potrebbe essere di buon auspicio per la riuscita e l’eliminazione dell’effimero.
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