Nomen omen, il nome (è) un presagio: i latini ritenevano che nel nome si nascondesse un presagio, quasi il destino a cui dovesse essere consegnato un individuo, un segno indelebile che ne avrebbe segnato il cammino di vita. A questa antica credenza sembra quasi ammiccare lo scrittore siciliano Sebastiano Addamo, nel lucido e tristemente ironico racconto della storia – del nome e delle drammatiche conseguenze ad esso legate – del protagonista del racconto Fine di una giornata (tratto dalla raccolta Non si fa mai giorno, Palermo, Sellerio, 1995): del povero signor Ficarotta, «distinto quarantenne catanese», viene finemente descritto, in un climax drammatico, prima il disagio – sempre più profondo e doloroso, legato alla propria identità continuamente svilita, per la particolarità del suo nome, da quanti gli stanno intorno – e poi il tragico epilogo dal forte sapore pirandelliano. Di questo racconto il giovane regista e scrittore siciliano Massimiliano Perrotta, nella seconda metà degli anni novanta, realizzò una riduzione teatrale con la supervisione dello stesso Addamo, suo mentore. L’incontro tra un ormai anziano e ammalato Addamo e il poco più che adolescente Perrotta portò all’ideazione e realizzazione – ma non, purtroppo, alla messa in scena – di uno spettacolo interamente composto di pezzi dello scrittore siciliano, tra cui la trasposizione in monologo teatrale di Fine di una giornata. Ed è stato proprio questo monologo l’unica parte del corposo progetto iniziale – maturato dallo stesso Addamo e da Massimiliano Perrotta – ad aver conosciuto una resa teatrale, pur tarda per lo scrittore, scomparso nel luglio del 2000: lo spettacolo, interpretato dall’attore Marco Castelli, ha debuttato infatti, per varie circostanze, solo nel dicembre del 2005, alle Biblioteche riunite Civica e A. Ursino Recupero di Catania e, l’anno successivo, è stato replicato a Roma, al Teatro Flaiano e al Teatro Sala Umberto. L’8 settembre 2007 ne ha poi compiuto una particolarmente sentita lettura lo stesso regista, Massimiliano Perrotta, al Museo Civico d’Arte Contemporanea di Caltagirone, nell’ambito della sezione Concerti della rassegna d’arte contemporanea Prova d’Autore, curata da Domenico Amoroso, Direttore dei Musei Civici “L. Sturzo” della città. Il monologo drammatico Fine di una giornata, tratto dall’omonimo e bellissimo racconto di Sebastiano Addamo, viene ora pubblicato (con una nota di Massimiliano Perrotta), per gentile concessione di Sellerio Editore, presso la casa editrice La Cantinella, collana che dimostra ancora una volta il profondo interesse rivolto al recupero del ricco e multiforme patrimonio del passato e della cultura siciliana, per mezzo delle sue voci più significative, con un occhio di riguardo rivolto al teatro, «la forma d’arte più coinvolgente, quella che, mediante un rito collettivo che ha protagonisti insieme attori e pubblico, meglio d’ogni altra consente d’indagare la storia non soltanto scenica ma pure politica, sociale, economica, antropologica, linguistica e di costume dell’Isola.» Il regista Massimiliano Perrotta ci ha gentilmente rilasciato un’intervista nella quale racconta il suo giovanile incontro con lo scrittore e con l’uomo Addamo e spiega il perché dell’importanza della riscoperta di un simile autore proprio oggi. Perché Addamo? Conobbi Addamo a metà degli anni novanta. All’epoca ero poco più che un ragazzo ma avevo già letto e amato quasi tutti i suoi libri. Ero alla ricerca di un confronto diretto con i miei maestri, non mediato dalla pagina letteraria. Sapevo che Addamo abitava a Catania e lo chiamai. Con molta cordialità mi propose di andare a trovarlo. Discutendo di possibili progetti teatrali da realizzare insieme, pensammo di adattare per la scena alcune sue cose. L’idea era di realizzare uno spettacolo teatrale composito, con un monologo, alcune prose poetiche, poesie e momenti di teatro-danza. Per una serie di circostanze lo spettacolo non andò in scena, ma il monologo tratto dal racconto Fine di una giornata ha debuttato infine nel 2005, quando purtroppo Addamo non c’era già più. Perché riproporre oggi Addamo? Sebastiano Addamo fa parte di una generazione di scrittori siciliani di grande valore. Si pensi a Bufalino, a D’Arrigo, a Sciascia, al mio concittadino Giuseppe Bonaviri… Per diversi motivi, taluni legati anche a scelte di vita, rispetto a loro Addamo è finora emerso un po’ meno. Peraltro, diverse sue opere – a mio avviso molto interessanti – furono pubblicate negli anni ottanta e novanta, quando dominavano l’ideologia del disimpegno, il postmodernismo… un momento poco propizio per la ricezione di libri scritti all’insegna del rigore e di un certo spirito autocritico. Forse questi anni che stiamo vivendo, in cui torna ad affacciarsi l’esigenza di rimettere in discussione la nostra identità e la nostra cultura, potrebbero avere bisogno del contributo di Addamo: della sua lucidità, dei suoi esami di coscienza, dei suoi “giudizi della sera” (Il giudizio della sera è il titolo del suo romanzo più noto). Come si svolgeva il vostro lavoro di collaborazione? Il mio era soprattutto un lavoro di taglio e rimontaggio dell’opera originaria. Leggevo ad Addamo quanto avevo fatto e lui, con grande disponibilità al confronto, mi dava il suo parere. Ricordo con un certo divertimento che, di tanto in tanto, mi sottoponeva a piccoli test per sincerarsi che avessi davvero ben compreso i significati delle sue opere. Si trattava pur sempre di un rapporto tra “maestro” e “discepolo”… Lei ha avuto la fortuna di conoscere due volte Sebastiano Addamo: prima come scrittore, attraverso le pagine delle sue opere, poi, come uomo, negli spazi intimi della sua casa e nell’intimità degli ultimi anni della sua vita. Ritiene fosse forte la distanza tra lo scrittore e l’uomo? Una delle cose che immediatamente mi colpì di Addamo fu la distanza minima che separava l’uomo dallo scrittore. Ebbi l’impressione che i suoi libri fossero uno specchio fedele del suo essere uomo. Era una persona molto asciutta, misurata, che non si concedeva vezzi, nemmeno quello di “fare l’artista”.
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