Maggio 2009

MERCE DONNA

Stereotipi sessisti e violenza sulle donne


Anna Pullace

Gli stereotipi di genere che pubblicità e media propongono, anzi con cui ci bombardano ogni giorno, contribuiscono a inculcare l’idea che la donna sia un oggetto sessuale per l’uomo e che, in quanto tale, possa essere usata per il proprio piacere sessuale. Volente ma anche nolente. Il pericolo è che questa rappresentazione della donna si sta diffondendo talmente tanto da far ritenere a molte persone, uomini e donne, che spesso una donna stuprata “se l’è cercata”. Si sa che pregiudizi e stereotipi discriminanti sono duri a morire ma scoprire quanto siano diffusi nella nostra società, ancora nel terzo millennio, e soprattutto fra i giovani, è quanto meno sconcertante. È sconcertante scoprire che è ancora opinione largamente comune che la donna è puttana e l’uomo cacciatore, ma è ancora più sconcertante apprendere come questa opinione sia tanto radicata da arrivare a colpevolizzare addirittura le vittime di stupro. Alla fine di maggio sono stati diffusi i risultati di un’indagine dell’Airs (Associazione italiana per la ricerca in sessuologia), durata 3 anni e che ha coinvolto 3 mila persone, intitolata Dalle molestie sessuali allo stupro. Il 55,8% degli uomini e il 33% delle donne ritiene che le donne, “libere e ambigue sessualmente”, sono a volte responsabili della violenza subita e che, “se fossero meno provocanti, le violenze sessuali si ridurrebbero in modo drastico”. Dello stesso parere è addirittura il 74% dei giovani sotto i 30 anni. Il risultato è allarmante e ha sorpreso anche i curatori del sondaggio che si aspettavano, sì, risposte del genere ma non in percentuale così alta. Un altro dato preoccupante che emerge dall’analisi delle risposte ai questionari, fatta da un team composto da sociologi, sessuologi, psicologi, psichiatri, criminologi e massmediologi, è che il 50% degli uomini e il 43% delle donne non classifica come molestie sguardi, allusioni e apprezzamenti pesanti nei confronti delle donne. Considerare normali fischi e parole sconce significa sottovalutare le molestie sessuali e non fermare molestie prolungate può far pensare all’aggressore che la vittima gradisca le sue attenzioni e che può, quindi, spingersi oltre. “La molestia sessuale” - precisa, infatti, Franco Avenia, presidente dell’Airs - può essere l’anticamera della violenza fisica. Un molestatore è già un violentatore a livello psicologico”. I risultati dell’indagine Airs, l’alto numero dei casi di stupro, che si verificano anche nei confronti di giovani e giovanissime in compagnia dei fidanzati, la diffusione del video gioco RapeLay (gioco di ruolo in cui il protagonista segue intere famiglie di donne, minorenni comprese, le molesta e le violenta), mostra come la nostra cultura sia “malata”, permeata come è di maschilismo, ignoranza e pregiudizi. I modelli culturali in cui le persone si identificano sono influenzati anche dai media. Quando pubblicità e televisione, prime fra tutti, propongono prototipi umani stereotipati, con caratteristiche negative, caricaturali, lontane dalle persone reali, influenzano negativamente l’opinione su determinate categorie (donne, omosessuali, appartenenti ad altre culture, etnie o fedi religiose). Le donne di oggi hanno, pur faticosamente, conquistato diversi ruoli nella società, anche se sono ancora poche nella libera professione, nei vertici dirigenziali o in politica. Ma qual è l’immagine della donna che emerge dalla pubblicità o dalla televisione? La donna è rappresentata sia come soggetto che come oggetto: soggetto della casa, oggetto sessuale, entrambi stereotipi limitanti e umilianti. Per la pubblicità le donne sono madri di famiglia efficienti, padrone della situazione (in casa, sia chiaro) che sanno destreggiarsi fra merendine, prodotti per la pulizia e rimedi per l’influenza: è, questo, il prototipo della donna soggetto, ovviamente solo nella cura della casa e della famiglia, che contribuisce al perdurare delle disuguaglianze fra generi e delle discriminazioni nei confronti delle donne nella società e nel mondo del lavoro, dove le donne sono richieste principalmente per mansioni poco qualificanti (e meno retribuite) o nelle quali è richiesta una bella presenza ma poche competenze, quindi con salari più bassi. C’è un altro prototipo di donna, molto più pericoloso del primo, che viene rappresentato da pubblicità, riviste e televisione: è la donna oggetto, oggetto sessuale per l’uomo che, come tale può essere usata per il proprio piacere. Volente o nolente. Non solo spot e foto pubblicitarie ma anche numerosi spettacoli televisivi esibiscono donne molto poco vestite senza un ruolo preciso, se non quello di offrirsi agli sguardi maschili, senza competenze e, a volte, senza neanche un nome, una voce o una personalità. Ed è tutta un’esplosione di labbroni, tettone, culoni, provocanti, disponibili e ammiccanti che fanno apparire le donne nient’altro che oggetti del piacere maschile. Spesso sono le stesse donne che si mercificano: non c’è attrice, soubrette (ci sono ancora le soubrette? O ormai sono tutte veline?) che non si sia rifatta qualche parte del corpo. Veline e aspiranti tali sono cresciute a tv spazzatura e sono profondamente convinte, perché il concetto si è talmente radicato in loro fin da bambine, di valere solo per l’aspetto fisico e di dover puntare su qualità estetiche uniformate, artificiali, e anche volgari, per la propria affermazione. Lo scorso anno il parlamento europeo ha approvato la relazione della deputata svedese Eva-Britt Svensson, chiedendo di eliminare dai media, ma anche da testi scolastici, giocattoli e videogiochi, gli stereotipi di genere che limitano donne e uomini e “rinchiude gli individui in ruoli prestabiliti, artificiali e spesso umilianti”. Questo significa no alle modelle anoressiche nella pubblicità, no alle offerte di prestazioni sessuali sui giornali, no ad elementi che “approvino, esaltino o inducano alla violenza contro le donne”, no a messaggi che comportino discriminazioni o mancanza di rispetto per la dignità e l’integrità delle persone. Gli Stati membri dell’Unione europea dovrebbero vigilare, secondo la Svensson, affinché pubblicitari, e media in generale, rispettino queste raccomandazioni. La domanda è: cosa aspettiamo?