Non esiste alcun Mal d’Africa nell’immaginario e nella filosofia di Tulime. In primo luogo per una ragione legata alle parole e come dice qualcuno le parole sono pietre e bisogna starci attenti. Male è il contrario di bene, quindi qualcosa da non desiderare, ma a parte qualche malaria di poco conto per gli europei, c’è davvero poco male pensando all’Africa. In secondo luogo perché probabilmente esistono tante piccole malattie che ci si porta dietro contro le quali bisogna mettere in guardia chi vive per la prima volta un’esperienza in Africa perché si tratta di infezioni molto brutte che restano nel sangue e che rischiano di non andare più via. Ognuno può raccontare le proprie, noi possiamo raccontare le nostre. La malattia terribile di non sapere cosa stia facendo Japhet in questo momento, se sta bene, se ha preso una di quelle malattie stupide che qui da noi si curano con un paio di aspirine e che li non sanno come gestire. La malattia di pensare alla sera che mentre noi siamo sotto un tetto ben coibentato, i tuoi amici dormono già da diverse ore sotto un tetto di paglia, e non per il fusorario (che in realtà è di un’ora sola) ma perché non c’è luce elettrica e al calar del sole ci si mette a dormire così da potersi svegliare presto, alla prima alba per zappare il fazzoletto di terra davanti alla capanna. La malattia orrenda e un po’ vigliacca che ti porta a non chiedere nelle lettere a Fra Paolo (che vive con la gente dell’altopiano) come stanno gli amici con cui hai attraversato le strade di terra rossa, con cui hai liberato le ruote del pulmino dal fango, con cui hai piantato gli alberi, per la paura della risposta che sai arriverà prima o poi. La malattia senza speranza e che uccide la speranza di un’incertezza breve che si consuma ogni anno alla visita muta al cimitero di Pomerini e in un conto sempre “a dare” e mai “ad avere” fra chi c’era l’anno scorso e chi è rimasto quest’anno. La malattia senza cura che ha come sintomo l’urgenza di fare sempre di più, di dare sempre di più, di costruire scuole, asili, dormitori, di aggiungere borse di studio, vasche per la disinfezione dei bovini, aiuti agli orfani… anche se non sai ad ogni momento se stai facendo la cosa giusta perché la vita è uno spazio troppo esiguo per capire cose che vanno a di là del nostro tempo. Queste sono le nostre malattie. Sul nostro tavolo, mentre tentiamo con poche parole forse sconnesse di condividere la nostra visione dell’esperienza in Africa, è poggiato il calendario di Tulime del 2009, con delle immagini. Patricia e Upendo (Upendo vuol dire Amore in lingua swahili) sono una nonna ed una nipote all’ingresso della loro capanna, Upendo la bimba con le piccole dita devastate dalla funza, una pulce perforante che va tolta in fretta per evitare brutte infezioni come è già accaduto alle indifese mani di Upendo. Upendo che rimprovera i suoi amici che prendono una caramella in più perché ce n’erano tanti che non l’avevano ancora avuta. Teresia che intreccia i suoi cestini con i milulu (la fibra vegetale che va a prendere lontano dalla sua casa e che carica sulla testa) che porta dentro di sé la malattia più vera e più atroce di quel paese e di questo tempo, che sorride e che aspetta il nostro arrivo, e che ci abbraccia togliendoci il respiro. Kizito chino sulla sua macchina da cucire, Kizito papà solo quando ha potuto permetterselo, le tre mucche per sua moglie e sei macchine da cucire alle quali non poteva credere neanche quando le ha viste. Queste sono le nostre malattie, malattie che vorrei da un lato avessimo in tanti, dall’altro no, perché in fondo se ci pensiamo sono malattie che fanno male. Malattie fatte di parole, per le quali esiste un’unica cura: condividere lo stesso male con qualcun altro, con chi si ama al fine di “cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno non è inferno e farlo durare e dargli spazio”.
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