Agosto 2010

CARAVAGGIO, UN GENIO IN FUGA

La maledizione della vita che diventa arte


Marinella Calabrese

Da cosa è fuggito Caravaggio per tutta la vita? Da chi lo inseguiva per vendetta o per rivendicare il proprio onore? Da chi aveva offeso, ferito, oltraggiato? Dalle ombre delle sue opere o dall’oscurità del suo animo? Chi conosce la luce conosce anche le ombre, chi conosce la profondità del cielo conosce gli abissi dentro di sé e il rischio è quello di perdersi, essere risucchiati, come in un buco nero, dalla voragine dell’indicibile e dell’invisibile: il buio, il nulla, la morte. La morte lo coglie nella luce abbagliante del luglio 1610, in una spiaggia riarsa, deserta, forse popolata da fantasmi e ombre, invisibili agli occhi ma presenti nell’animo. Caravaggio dipinge con sottili e violenti squarci di luce, dipinge scene cruente e sonda i recessi dell’animo umano, racconta le passioni, gli uomini, le storie, il sacro e il profano e li racconta fermando il tempo in una scena, fermando lo sguardo dello spettatore in quell’attimo, facendolo diventare testimone o addirittura complice: fra le luci e le ombre, noi siamo lì, presenti sulla scena. Caravaggio da Milano si sposta a Roma per respirare l’aria di una città in fermento, dove l’arte rinascimentale lascia spazio ad una nuova pittura che sarà anche la sua pittura, mentre la posizione esistenziale dell’uomo, espressa dal rigore geometrico della prospettiva centrale, lascia spazio alle ellissi, alle curve concave e convesse dell’architettura barocca: da un unico centro si passa ai due fuochi dell’ellisse, l’antropocentrismo tolemaico lascerà spazio alla visione copernicana e l’uomo non sarà più al centro del suo universo. Come la ragione da sola non può spiegare l’essenza dell’uomo e il suo agire. Forse Caravaggio conosceva bene quello che poi ci avrebbe raccontato Freud, conosceva i moti profondi dell’animo umano, i suoi fermenti, la pulsione di morte, l’aggressività, l’Ombra. Caravaggio dà vita alle nature morte, attinge alla realtà e la dipinge, non si ferma davanti alla drammaticità del racconto perché è la drammaticità della vita, della sua vita e ce la presenta, scarna e assoluta ed è uno sguardo a cui non possiamo sottrarci. Siamo soli, noi e lui, davanti al mistero della vita e del destino, davanti alla vertigine del divino, davanti alla miseria e all’eternità dell’’uomo. Caravaggio, come forse molti uomini del suo tempo, è spesso violento, attacca briga, gira armato, è coinvolto in varie risse. Passa dai palazzi di principi e cardinali alle prigioni, conosce il lusso e la miseria, usa il pennello e le armi. Il 28 maggio del 1606 uccide durante un litigio Ranuccio Tommasoni ed è condannato a morte per decapitazione: le decapitazioni che tante volte aveva dipinto sono ora il destino a cui deve sfuggire e un’ossessione che forse sulla tela cercherà di esorcizzare. Riesce a nascondersi, sicuramente aiutato da amici e protettori, resta nascosto in Lazio, dipinge per i Colonna due drammatici dipinti, fugge poi a Napoli. Alla ricerca di gloria e sicurezza, dopo otto mesi trascorsi a Napoli nel luglio del 1607 Caravaggio si imbarca per Malta, entra in contatto con il personaggio più importante dei Cavalieri di Malta, il 14 luglio del 1608 viene ammesso nell’Ordine e dipinge varie opere ma la pace dura poco, tra la fine dell’’estate e l’autunno del 1608 le cose precipitano di nuovo, come scrive il Bellori, uno dei primi e più autorevoli biografi di Caravaggio, “il suo torbido ingegno lo fece cadere da quel prospero stato di grazia e dalla benevolenza del Gran Maestro, poiché venuto egli importunamente a contesa con un cavaliere nobilissimo, fu ristretto in carcere e ridotto a mal termine di strapazzo e di timore”. Caravaggio fugge dal carcere e il 6 ottobre si imbarca diretto a Siracusa. I Cavalieri espellono Caravaggio dall’Ordine con disonore bollandolo “come membro fetido e putrido”. Forse come i cadaveri che tante volte aveva proprio lui dipinto. Gli ultimi due anni di vita dell’artista geniale e maledetto trascorrono prima in Sicilia e poi verso Roma, in attesa della grazia che arriverà dopo la morte. Le ultime opere sono proprio quelle dipinte a Siracusa e poi di nuovo a Napoli. Si dipinge nella testa mozzata di Golia nel “Davide e Golia” (oggi alla Galleria Borghese) con l’espressione malinconica di chi conosce il proprio peccato, di chi chiede perdono ma sa anche che anche in un’altra vita forse avrebbe rivissuto gli stessi eventi drammatici senza poterli evitare. È una forma di ineluttabilità del fato, come nel “martirio di Sant’Orsola”, dove di nuovo si rappresenta come testimone della tragedia, è una tragedia silenziosa, un dialogo impossibile fra vittima e carnefice, fra la vita e l’inevitabile morte. Da Napoli cerca di risalire a Roma, aspettando la grazia e passando dallo Stato dei Presidi. Per un equivoco viene di nuovo arrestato, perde la nave con i suoi beni, si ritrova nella spiaggia di Porto Ercole con la febbre malarica che lo sfianca. Solo, nella luce accecante e nell’afa. Ma come nei suoi dipinti forse lo sfondo è nero, è vuoto, è il nulla della vita che va via. Muore malamente come appunto male era vissuto. Caravaggio fuggiva per evitare la morte, fuggiva per espiare una colpa, incappando in nuovi guai. Da se stesso non poteva fuggire, dal suo destino neanche. Caravaggio fuggiva portando con sé la sua compagna fedele: l’arte compagna di vita. La sua vita e la sua arte resteranno indissolubilmente legate in una drammaticità che colpisce ogni essere umano che al suo destino mortale non può sottrarsi. Si può fuggire da se stessi? Si può ingannare il fato? Caravaggio a Porto Ercole aveva raggiunto la sua Samarcanda.