Novembre 2010

VIVA 'O RE!

L'incubo settentrionale di un Mezzogiorno parassita


Carlo Blangiforti

Non ricordavo perché Giorgio Bocca mi stava così antipatico. In realtà, traviato dalla comune fede anti-berlusconiana avevo dimenticato quando urtante potesse essere il suo modo di porsi. Una volta letto l’articolo su l’Espresso del 2 dicembre scorso, ho avuto una sensazione che mi si ripresenta spesso negli ultimi tempi. Ma perché il Sud, questo Sud, perché la Sicilia, la mia Sicilia viene trattata come il parente lazzarone, pigro e disgraziato che si invita per le feste comandate solo per non fare torto alla buona creanza? Perché sopportare le parole dello sventurato vicentino che spalando fango dopo l’alluvione grida con orgoglio e arroganza: “Noi siamo veneti, ci rimbocchiamo le maniche...”? Perché continuiamo a riempire i nostri carrelli con prodotti fatti o in Cina o a nord del Po? Perché continuiamo a dirci italiani quando l’Italia, certa Italia, non ci vuole più? La tesi espressa dallo scrittore cuneese è semplice. Di tanto in tanto voci del Sud si alzano per dire le solite consolatorie falsità: una volta il Meridione era ricco, poi arrivarono i Savoia e gli industriali del Nord e iniziò il sacco dell’ex regno delle Due Sicilie. E per far questo snocciola una serie di citazioni e dati che, anche se non suffragati da fonti, sono assolutamente plausibili. Bocca dice: “Il Sud e la Sicilia del regno borbonico, liberati o conquistati da Garibaldi, ricchi e progrediti certamente non lo erano.” Non gli si può dare torto, qui al Sud si tende a mitizzare le poche eccellenze (ieri come oggi) un tentativo infantile di farsi forza, di illudersi in un futuro in progredire. Ma, mi chiedo, quanti degli stati europei del XIX secolo erano nelle stesse condizioni? Quante delle attuali progredite regioni del Nord Italia erano anche peggio combinate? Il quadro del Meridione è sconfortante: “Il Sud è povero da secoli e lo è ancora. Due capitali popolatissime, Napoli e Palermo, e attorno migliaia di villaggi poveri, inospitali, dimenticati.” Non sono uno storico, non sono un demografo e non sono uno statistico (non lo è nemmeno Bocca però) però nel 1861, la Sicilia aveva circa 3 milioni di abitanti, le tre grandi città siciliane (Palermo, Catania e Messina) arrivavano a stento al 12% della popolazione totale. In realtà c’erano pochi comuni molto popolosi e ricchi di istituzioni culturali, religiose e politiche che erano state protagoniste di rivoluzioni e involuzioni per tutto il secolo. Nella capitale viveva circa l’8 % della popolazione isolana. Non è che è forse Bocca che si muove sul terreno sicuro delle frasi fatte?! Il sud del 1861, ha poche infrastrutture. Lo stato borbonico aveva le casse in buona salute perché non investiva, non spendeva in opere di interesse comune, non come avrebbe dovuto... Le regioni del Nord (ad esempio il Piemonte) era mostruosamente indebitato: campagne militari e opere pubbliche. Le casse borboniche servirono, e questa è storia, per sanare il deficit sabaudo. “Le differenze con il Nord nell'anno dell'unità enormi, a cominciare dalle strade: al Nord 67 mila chilometri, al Sud 15 mila.” Vero. Anche se rispetto all’oggi erano risibili. Ma uno storico serio sa che allora il problema non era Nord/Sud ma Centro/Periferia d’Europa. Grave è che a distanza di decenni, in un epoca in cui la globalizzazione, non conosce dimensioni unicamente geografiche, si continuano a riprodurre amplificandole le stesse storture socioeconomiche dell’Ottocento. Bisogna aggiungere che costruire una strada tra Catania e Palermo, non era certo la stessa cosa del tracciarla tra Milano e Torino. Bisogna tenere presente che quel Nord era d’un terzo più esteso del Sud. Bisogna aggiungere che gli sforzi d’ammodernamento nei trasporti c’erano stati: studi erano commissionati, investimenti aumentati ecc. Il Sud aveva tassi di analfabetismo molto alti. “il 90 percento di analfabeti in Sardegna, l'89 in Sicilia, l'86 in Calabria e in Campania.” Non è chiaro se per Bocca l’arretratezza borbonica del Sud è un prodotto antropologico o della classe politica dell’epoca. Perché se fosse colpa dei governi come si spiega il cuneese Bocca il 90% d’analfabetismo della Sardegna (in realtà 91%) contro il 57% del Piemonte? Le due regioni facevano allora parte dello stesso regno: non è che il modello piemontese delle due velocità, rodato in un secolo e mezzo di Regno sabaudo, fosse diventato il modello culturale di stampo neo-coloniale adottato anche dall’Italia unita? Il Sud industrializzato è un mito? Vero. L’industrializzazione era spesso sovvenzionata dallo stato e sul territorio si distribuiva a macchia di leopardo. Dice Bocca: “Quante volte il meridionalismo onirico ci ha raccontato come lei [Raffaele Lombardo] che l'industria del Sud era fiorente e che fu sacrificata al Nord. Le industrie tessili del Sud non vendevano una pezza sul mercato europeo, l'arsenale dei Borboni era certamente per l'epoca un grande complesso industriale, con più di mille operai che producevano navi, locomotive, cannoni e macchine, ma fuori mercato, destinato a fallire già nel 1870.” L’industria meridionale era la tipica industria debole di un paese con poche infrastrutture, un’industria che puntava al mercato interno per rafforzarsi (si veda l’esempio del Giappone del periodo Meiji) e poter affrontare al meglio i mercati esteri. Ieri come oggi la ricchezza era la terra. Il Sud esportava (e non verso il Nord) soprattutto prodotti agricoli, in genere prodotti ad alta redditività (agrumi, vino ecc.), i cereali servivano al mercato interno. Anche le industrie tessili erano orientate al mercato interno, è vero “non una pezza veniva esportata” ma le esportazioni italiane di filati era pressoché zero. Nemmeno il laborioso Nord, in realtà, era in grado di competere con i tessuti di cotone indiani o con i panni di lana inglesi. L'unità gli offri un ampio mercato interno e commesse pubbliche di notevole rilevanza. Nel 1861 la proto-globalizzazione non dava scampo nemmeno al ricco Settentrione. L’unica soluzione era il protezionismo: che il Sud esporti agrumi e vino (specie la Sicilia) e che il Nord produca manufatti per il mercato interno. Agrari (latifondisti) che andavano a braccetto con industralotti della Padania. Bocca sostiene il concetto citato un tale Fulchignon: “O il latifondo o contadini così poveri e ignoranti da non poter diventare imprenditori.” Vero. Ma la realtà agricola meridionale era molto varia: colture altamente specializzate e inserite in processi industriali si affiancavano al triste e abbandonato latifondo. Sull’Etna una vivace imprenditoria vinicola, si contrapponeva alla gestione tardo-feudale di larga parte del centro Sicilia. Per avere un’idea, basta leggere i rapporti di Tocqueville, un viaggiatore forse meno noto di Fulchignon, ma certo un po’ più acuto che nelle pendici dell’Etna del 1827 scriveva: “Presto si lasciano le lave e ci si trova allora, senza trapassi, in mezzo a un paese incantato, che vi sorprenderebbe ovunque ma che vi riempie di stupore in Sicilia. Sono orti continui, alternati a capanne e a graziosi villaggi: qui nessuno spazio perduto: dappertutto un'aria di prosperità e di abbondanza. Notai, nella maggior parte dei campi, grano, viti ed alberi da frutta che crescevano e prosperavano insieme”. La situazione non cambierà fino alla fine dell’Ottocento. Nel regno borbonico tra Sette e Ottocento vennero numerosi viaggiatori da tutta Europa: descrissero i pochi larvali e presto soffocati bagliori di modernità, parlarono delle profonde miserie in cui versavano contadini, pastori e minatori. Ma quanti di quei viaggiatori incontrarono il mondo disperato dei contadini bergamaschi? Quanti emigrati liguri e piemontesi incontrarono viaggiatori europei delle pampe argentine o nei bassifondi di New York? La miseria è una brutta cosa, Bocca, ma purtroppo non è merce rarissima, anche se un po’ più rara della grossolanità di certe analisi socioeconomiche. Beh a forza di leggere le riflessioni di Bocca e di ascoltare le grossolane castronerie di Tosi, Cota, Borghezio & Co. si finirà col gridare “Viva ‘o Re!” e rimpiangere i Borboni, preferire un re Francischiello che resiste con i suoi nella rocca di Gaeta ad un pupo di pezza che trovò bene calare le brache al Fascista nel '22, a firmare la legge più odiosa nel '38 e a scappare nottetempo a Brindisi nel '43. Dopo aver letto con attenzione il pezzo di Bocca (ne allego la versione integrale), sempre sull’Espresso ho incontrato un altro articolo: “Nord pigliatutto” di Gianluca Schinaia. Scopro così che negli ultimi due anni, anni di crisi terribile dicono, il Cipe ha previsto finanziamenti per opere pubbliche per 5993,4 milioni di euro al Nord e per 2560,8 al Sud; di questi soldi sono stati confermati 5908,4 al Nord e 1617,1 (compresi 240,9 per la ricostruzione post terremoto in Abruzzo) al Sud. Grosso modo: al Sud si avrà poco più un quarto di quanto riceverà il Nord. Penso al fatto che dopo appena 20 anni il gap tra Germania dell’Ovest e quella dell’Est è stato in praticamente azzerato. Penso ai fondi Fas ecc. e mi dico: “Tssss! Non fatelo sapere a Raffaele Lombardo che sennò quello non ce la finisce più con questa menata del povero Sud vittima di un Nord predone e oppressivo” e poi, caro Giorgio Bocca, sono dolori...
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L’ANTITALIANO / IL MEZZIOGIORNO CHE NON C’È di Giorgio Bocca
Il lamento meridionalista si rinnova. Era il 1990 quando Rino Nicolosi, presidente della Regione Sicilia, disse: "Sappiamo in molti qui al Sud che siamo ormai vicini al punto del non ritorno posto dai nostri problemi irrisolti". Ribadito oggi dall'attuale presidente Raffaele Lombardo. Intanto presso Napoli i dimostranti contro i rifiuti nella discarica di Terzigno bruciano la bandiera nazionale. Ritorna la vecchia storia del Nord ricco e industriale che sfrutta il Sud povero agricolo e lo depreda dal poco di benessere che aveva raggiunto. Facendo eco alla lunga campagna meridionalista durata per tutta l'Italia unita che, accanto a buoni e ragionevoli argomenti, allinea le lamentele di comodo e oggi di nuovo di moda. La Sicilia e il Sud ricchi depredati dai nordisti, come sostiene Lombardo, è in buona parte un'invenzione demagogica. Il Sud e la Sicilia del regno borbonico, liberati o conquistati da Garibaldi, ricchi e progrediti certamente non lo erano. Il Sud è povero da secoli e lo è ancora. Due capitali popolatissime, Napoli e Palermo, e attorno migliaia di villaggi poveri, inospitali, dimenticati. Le differenze con il Nord nell'anno dell'unità enormi, a cominciare dalle strade: al Nord 67 mila chilometri, al Sud 15 mila. Quando il presidente Berlusconi annuncia in Parlamento che in breve risolverà il problema dell'autostrada Salerno-Reggio Calabria l'assemblea ride e rumoreggia, perché tutti sanno che è sempre in costruzione o riparazione. Il Sud viene definito "uno sfascio pendolo" in perenne frana. Ci sono paesi, si legge in una cronaca di fine Ottocento, dove una lettera messa alle poste a Castrovillari impiega ad arrivare due volte il tempo che da Londra o da Parigi. Neanche un chilometro di ferrovia sotto Salerno nell'anno dell'unità, il 90 percento di analfabeti in Sardegna, l'89 in Sicilia, l'86 in Calabria e in Campania.

Egregio onorevole Lombardo, ci voleva un bel coraggio da parte di un Nord che lei definisce predone e oppressivo a prendere sulle braccia un simile fardello? Quante volte il meridionalismo onirico ci ha raccontato come lei che l'industria del Sud era fiorente e che fu sacrificata al Nord. Le industrie tessili del Sud non vendevano una pezza sul mercato europeo, l'arsenale dei Borboni era certamente per l'epoca un grande complesso industriale, con più di mille operai che producevano navi, locomotive, cannoni e macchine, ma fuori mercato, destinato a fallire già nel 1870. Scrive lo storico Carlo De Cesare: "L'industria napoletana era armonica ma immobilista e senza prospettive. Le campagne separate dalla capitale con scarsissime comunicazioni, un livello culturale infimo, debolissime attrezzature civili". Un altro luogo comune è che nel Sud la rivoluzione agraria fallì per colpa del capitalismo nordista. Ma a dire il vero le condizioni dell'agricoltura meridionale erano pessime e così ne scriveva in francese Fulchignon: "O il latifondo o contadini così poveri e ignoranti da non poter diventare imprenditori. Si accontentano di piantare qualche ulivo o qualche gelso e vivono in condizioni bestiali". I movimenti secessionisti meridionali che copiano quello leghista sono insensati. La crisi del mondo contemporaneo è altra, di essere senza governo, di affidare solo agli appetiti del capitalismo la programmazione della produzione e dei consumi, di non capire che questo andare verso il futuro in ordine sparso in affannosa caotica lotta per accaparrarsi i mercati nuovi abbandonando i vecchi porta soltanto al generale disastro.