Spiegare com’è fatta una popolazione avendo a disposizione solo 5.000 battute, spazi compresi, è un’impresa ardua; per farlo, probabilmente, non basterebbe nemmeno un’intera Treccani e l’opera congiunta di storici, sociologi, psicologi, e ogni altra categoria che finisce in “ci” o “gi”. Io, che appartengo a una categoria che finisce in “sta”, proverò a farlo raccontando alcuni episodi di vita vissuta. Anni novanta, all’epoca emigrante che vive a Treviso, decido l’acquisto di una nuova automobile. Mio padre, bontà sua, decide di regalarmi qualche milione di lire e così si reca presso la filiale del Monte dei Paschi di Ragusa (allora avevo il conto corrente nella filiale di Mestre) per versare un suo assegno sul mio conto. Il cassiere, però, non accetta l’assegno perché, testuali parole, “potrebbe essere scoperto”. Mio padre, da popolano pratico qual era, gli suggerisce di fare un colpo di telefono alla sua banca per accertarsi che l’assegno sia “coperto”, oppure, ancora testuali parole, “lei me lo fa versare e se dopo non risulta coperto mi denuncia”. Niente da fare. Mio padre è costretto ad andare presso la sua banca, cambiare l’assegno e, con il contante in mano, tornare al Monte dei Paschi per fare il suo versamento. Bene. Finalmente i soldi sono sul mio conto corrente e allora vado alla filiale del Monte dei Paschi di Treviso, riempio uno dei miei assegni e vado allo sportello per incassarlo. Il cassiere però si oppone, dicendo che non può cambiarmelo in quanto il mio conto è aperto presso la filiale di Mestre. Chiedo di parlare con il direttore. Anche lui mi conferma quanto detto dal suo cassiere. Allora gli chiedo perché non può cambiare l’assegno, visto che comunque le due filiali appartengono alla stessa banca. Mi spiega che lui non mi conosce e che l’assegno potrebbe essere non coperto. Rispondo che posso dargli la mia carta d’identità e che per verificare la copertura del mio assegno è sufficiente una telefonata al suo collega di Mestre. Il direttore, un po’ agitato, mi dice che il documento potrebbe essere falso. Inizio ad agitarmi anch’io e gli rispondo che, se sospetta che la mia carta d’identità potrebbe essere falsa, posso attestare la mia identità anche con il passaporto, la patente di guida, il badge del lavoro e, crepi l’avarizia, anche con la tessera sanitaria. Il direttore, buon padre di famiglia, mi spiega: “Guardi, signor Occhipinti... lei sarà anche una brava persona, ma io non la conosco, non l’ho mai vista prima di oggi”. A quel punto, capendo che non c’è più nulla da fare, la mia calma inglese va a quel paese e viene fuori il mio sarcasmo: “Quindi lei mi sta dicendo che non posso cambiare qui il mio assegno perché lei non mi ha mai visto prima. Bene, allora io adesso esco, tra due minuti rientro, e lei mi cambia l’assegno visto che a questo punto non potrà più dire di non avermi mai visto prima!”. “Lei sta scherzano?”, mi chiede il direttore rosso in viso. Sì, stavo scherzando… Sono andato a Mestre a cambiare il mio assegno e, contemporaneamente, a chiudere il conto. Visto che in Italia non si può stare senza conto corrente, ne ho aperto un altro presso la Banca Commerciale Italiana. Mesi dopo, mi sono trasferito a Ragusa e, per arredare la casa nuova, tra le altre cose, decido di comprare una cameretta per mio figlio. A rate, con addebito diretto sul conto corrente. Dopo tante rate regolarmente onorate, mi capita, un fine mese, di andare in rosso per qualche decina di migliaia di lire. E la banca, quel mese, non mi paga la rata. Vado in filiale a chiedere spiegazioni, anche tenendo conto del fatto che appartengo alla categoria dei dipendenti a stipendio fisso, e sicuro. Faccio presente questa cosa al direttore, sottolineando che dopo pochi giorni il Ministero mi avrebbe accreditato lo stipendio e dunque il mio debito con la banca si sarebbe ripianato. La risposta del direttore è stata perentoria: lei non aveva soldi sul conto e noi per questo non abbiamo pagato la rata. Sono queste le regole. Perfetto: chiudo il conto e lo apro in una banca online. Adesso il mio referente in quella banca è diventato un risponditore automatico, ma almeno so che non mi devo aspettare nulla dal “fattore umano”. Ho deciso di riarredare la mia casa di campagna. Così ho accatastato nel cortile tutti i mobili che volevo sostituire e poi, per mandare tutto in discarica, mi sono rivolto alla società che per conto del comune di Ragusa si occupa di questo. Chiamo e loro gentilmente mi dicono che, siccome si tratta di rifiuti ingombranti, devo mettere in strada i mobili che voglio buttare. Loro passeranno poi a recuperarli. Ma come in strada? Non si rendono conto che così facendo, anche se per poche ore, quella strada diventa un immondezzaio a cielo aperto? “Signore”, mi dicono, “noi non possiamo entrare nelle case private, noi prendiamo solo gli oggetti che stanno sul suolo pubblico”. E prendere un appuntamento in modo che io metto i mobili in strada e loro contemporaneamente li caricano sul camion, no? Per ognuno di questi episodi c’è una spiegazione ufficiale: queste sono le regole, è troppo complicato fare diversamente, o, ancora, si è sempre fatto così. Peccato che sulle regole, sulle complicazioni, sulla tradizione si passa facilmente oltre se si ha a che fare con un ricco, un’autorità, un amico. Ecco… anche questa è l’Italia, gli italiani sono anche così.
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