Dicembre 2011

LIBIA 1912/2012

La conquista coloniale italiana un secolo dopo


Andrea Giuseppe Rapisarda

In questo 2012 appena iniziato cade il centesimo anniversario di un guerra da molti dimenticata, se non addirittura disconosciuta. Era il 1912 e l'Italia liberal-giolittiana si apprestava a vivere una melodrammatica esperienza coloniale, una sorta di grottesca pagliacciata, un triste e sibillino preludio della fine di un'epoca “spensierata”. Dunque, alla luce della scarsa rilevanza bellica degli eventi che caratterizzarono ben cento anni or sono la presa di Tripoli, è più che legittimo chiedersi la ragione di una simile riflessione, come quella affrontata in questa sede, in merito ad una spedizione non certo di primaria importanza. Badate, l'intento di chi scrive non è quello di disquisire su una fantomatica e fuorviante correlazione tra gli avvenimenti di un lontano passato e la realtà di scottante attualità rappresentata dalla caduta del regime di Gheddafi. Lo scopo che mi prefiggo di conseguire è, semmai, quello di puntualizzare la futilità di un'impresa coloniale e il ruolo da quest'ultima svolto di sdegnante “antipasto” di una carneficina, che di li a pochi anni avrebbe cagionato la fine dell'egemonia europea nel mondo. Già, noi italiani siamo davvero bravi nel presagire eventi tristi e funesti con iperboliche mire espansionistiche. E così, se il secondo tragico conflitto mondiale fu anche propiziato da certe teatrali conquiste come quella dell'Etiopia (1936) e dell'Albania (1939), la Grande Guerra annovera tra le sue nobili cause anche i nostri insaziabili appettiti irredentisti e coloniali. Ciò che ancora oggi mi sorprende, per la verità, non è tanto l'impresa in sè, poichè all'epoca un pò tutte le principali potenze continentali si cimentavano nella deprecabile lottizzazione del continente nero. Quello che mi stupisce è il fatto che uno statista liberal-moderato, da sempre disinteressato alla politica estera, sia stato il principale artefice della spedizione. Il fatto che Giovanni Giolitti abbia ceduto di schianto alle tensioni nazionalistiche ed espansionistiche fa, dunque, ben percepire quanto queste ultime avessero condizionato se non corroso la razionalità degli italiani. Difatti, quelli erano gli anni dei voli pindarici del “Vate” Gabriele D'Annunzio. Nessun altro intellettuale come il poeta di Pescara è mai riuscito ad influenzare la communis opinio in modo così pregiudizievole. Certo, pur non raggiungendo la sconcertante platealità dell'Impresa di Fiume o della Beffa di Buccari, tali tragicomici slanci emotivi contribuirono, senz'altro, a fomentare il clima incendiario di quegli anni. Quest'ultimo, del resto, reso ancor più scottante dalla mai dimentica disfatta abissina di Adua(1896), una cocente sconfitta che aveva, alla stessa stregua della capitolazione francese del 1871 alle truppe prussiane, generato quel sentimento di rancorosa rivalsa spesso, ahimè, causa di contese territoriali e guerre. L'Italia di quegl'anni, dunque, era attraversata da impetuose e visionarie correnti di pensiero, la cui rilevanza risulta, spesso, incomprensibile a noi che viviamo in un'epoca contraddistinta dalla scarsa incidenza delle ideologie e dalla spasmodica e “turbocapitalistica” ricerca del profitto. La società del primo Novecento, al contrario, era dominata da un'elitè intellettuale e borghese, da una stretta cerchia di ribollenti spiriti, che, malgrado l'analfabetismo galoppante di allora, riusciva, ciò nonostante, ad influenzare le ignoranti masse e l'agenda politica del tempo. Quindi, in quel periodo si assisteva ad un mondo della politica ostaggio di uno spurio crogiuolo di idee non ben definite, molte delle quali solo qualche anno più tardi (1919) confluirono a Milano a piazza San Sepolcro nel manifesto dei Fasci di Combattimento. Alludo, in particolare, al futurismo di Marinetti e al nazionalismo di Corradini. All'origine dell'affermarsi di queste strampalate teorie stava quella sorta di complesso di inferiorità scaturito dalle pesanti umilizioni di Custoza e Adua, cui poc'anzi si accennava, unito a quel senso di profonda invidia rispetto alla maestosa estensione degli imperi coloniali britannico e francese. Un sentimento che si protrarrà per decenni e che, evidentemente, giustificò negli anni 30 l'evventura fascista in Etiopia. Pur non riflettendo un consenso elettorale di massa, l'ideologia nazionalista risultò particolarmente pervasiva, anche negli ambienti di sinistra. Nonostante la ferma opposizione al conflitto del sindacalismo rivoluzionario, presto rappresentato da Filippo Corridoni, nei succitati ambienti di sinistra si fece strada l'agognato desiderio di instaurare un “imperialismo operaio” antitetico a quello capitalista. L'idea di trasformare l'orda degli emigrati italiani in colonizzatori delle sponde africane del mediterraneo raccolse numerosi proseliti nella Sinistra, anche socialista, italiana. Alla luce, dunque, di uno scenario politico e ideologico quanto mai frastagliato e destabilizzante, la scelta giolittiana di dichiarare guerra allo sgangherato impero ottomano si tradusse nella volontà di assecondare e placare, almeno per il momento, le siffatte bellicose ed esaltate correnti di pensiero. La Libia, allora protettorato turco, venne rapidamente conquistata grazie anche ad un astuta strategia ritorsiva, “sapientemente” escogitata dallo stesso Giolitti e dal suo fidato ministro degli esteri Antonino San Giuliano, ex sindaco di Catania. La flotta italiana, difatti, si spinse fino al mar Egeo, occupando lo stretto del Dardanelli e alcune isole del Dodecaneso e costringendo i turchi ad un'inevitabile resa. La Libia passò in mano italiana, ma si dovettero attendere i tempi della reggenza di Italo Balbo per stroncare le numerose sacche di resistenza. In buona sostanza, queste ostilità coloniali si prefigurarono come l'evocativa annunciazione non solo di un tragico conflitto, oramai, alle porte, ma anche del coagularsi di tutt'altro che moderati pensieri, che a distanza di qualche anno avrebbero costituito il retroterra culturale ed ideologico del fascismo. In definitiva, il 1912, anno tra l'altro del suffraggio universale, decretava l'inesorabile crepuscolo della monolitica epoca giolittina: l'esotica avventura in Libia preannunciava gli assordanti venti di guerra della prima parte del Secolo Breve, definita, con cinica sagacia da Hobsbawn, l'età della catastrofe.