Agosto 2012

L'Aquila, MAI PIÙ L'AQUILA...

Un viaggio sentimentale in una città ancora ferita


Filippo Camerini

Andare in Abruzzo d’estate offre un rifugio dal pesante agosto romano. Ormai da qualche anno ci rifugiamo un piccolo paese, un nido su una vallata nascosta, regalatoci del caso per trovare il piacere del fresco la sera, la possibilità di riposare all’ombra della faggeta e passeggiare sui sentieri. Una natura che si affaccia per chi come noi è più uso all’asfalto che alla terra è sempre un evento. Quest’anno ci siam spinti fin sotto il Gran Sasso a trovare un’amica a Castel del Monte. In viaggio è riaffiorato il ricordo del terremoto di tre anni fà. Ero a Kathmandu e seguivo questa tragedia anche sulle mail del soccorso alpino. Poi c’è stato lo scandalo degli sciacalli con il loro disumani sms, la ripianificazione del G8, le case costruite per gli aquilani fuori dell’Aquila, il turismo della tragedia, il terremoto dell’Emilia e la crisi che ha reso tutti più preoccupati e distratti. Nel terremoto dell’Aquila ti ci immergi pian piano. Già i paesi intorno appaiono come grandi creature spellate: palazzi, campanili e torri mostrano costole e ossa messe a nudo. Scheletri d’acciaio sostengono quel che resta in attesa di un restauro o di una ricostruzione. A Santo Stefano di Sessanio la bella torre è caduta e sono solo le impalcature a richiamare la forma originaria. Anche alla festa delle notte delle streghe, a Castel del Monte, le gru sono una presenza alla quale non ci si abitua. Era stata la nostra amica a raccomandarci di passare a l’Aquila e renderci conto di come stanno andando le cose - anzi come non stanno andando. Seppur fossimo pronti a vedere edifici danneggiati e anche distrutti, entrare nel centro storico è stato un pugno allo stomaco. Sulla strada per l’Aquila, non si possono non notare le costruzioni del progetto C.A.S.E. ovvero Complessi Antisismici Sostenibili Ecocompatibili. Si tratta di grandi complessi che alloggiano gli aquilani del centro storico. Non sono le classiche baracche dei terremotati ma costruzioni fatte per durare. Non sono proprio quartieri perché mancano di servizi, negozi, giardini ma han permesso che nessuno dormisse più in macchina e, nella tragedia, ovviamente nessuno si è lamentato di non poter andare a leggere il giornale in piazzetta. Del resto provare a fare una piazza a sostituzione -anche temporanea - di quelle del centro storico sarebbe stato come un affronto. Avvicinandoci al centro storico discutiamo se la parola ricostruzione sia più adatta di restauro, di tecniche moderne di recupero, di mancanza di fondi e di alternative. Ma nessuno di noi c’era stato all’Aquila dopo questo colpo. Ci rendiamo conto che buona parte delle gru che svettano sono intorno al centro storico e non dentro e impegnate in cantieri per la costruzione di nuovi edifici. E’ sabato, a mezzogiorno camminiamo tra gli edifici soffocati in tiranti, fermi e contrafforti. C’è qualche turista con la macchina fotografica, alpini che presidiano la zona rossa e tutto immerso in un silenzio imponente. Ci rendiamo conto quanto riduttivo è il concetto di un terremoto che ha segnato la città; il terremoto se n’è impossessato, è diventato la città. Lo ritrovi negli onnipresenti bersagli per il rilievo del laser, nei tabelloni delle ditte di ricostruzione, nella segnaletica divelta dai mezzi di cantiere, nei mucchi di macerie e nei contenitori per i carotaggi abbandonati. Le case sono ormai vuote. Non c’è più nulla da mettere al sicuro e neppure più nulla da rubare. La belva ancora ha ancora il suo covo nella zona rossa. La scorgi nell’erba alta che cresce, nei rifiuti ancora da eliminare, nelle porte spalancate e nell’assoluto abbandono. Una belva che ha allontanato gli aquilani verso spingendoli verso i nuovi palazzi di Coppito, Bazzano, Sant’Elia, Assergi e gli altri paesi del C.A.S.E.; è la prova che il terremoto a l’Aquila non è finito. Però, c’è anche la forza di rivolere con la forza di un capriccio la città, e la vita a l’Aquila. Riprendiamoci la città, strappiamola a chi ci ha mangiato su questa tragedia, agli alpini che presidiano la zona rossa, alle ditte di ricostruzione che in tre anni hanno solo messo la città in sicurezza. Riprendiamola alla paura della belva, alla rassegnazione, all’abitudine, alle casediberlusconi lontane ed isolate. Riprendiamola ad un governo che ha scelto di non presentarsi affidabile e trasparente nella gestione dei fondi scoraggiando così la solidarietà internazionale e da un altro che deve fronteggiare la crisi. L’iniziativa Mettiamoci una pezza; Urban Knitting a L’Aquila ha umanizzato le barriere, i divieti con lavori all’uncinetto. Ha urlato che l’Aquila è ancora viva e pulsante, che che gli aquilani non abbandonano la loro città. Ma quale è il futuro de L’Aquila in un paese che buona parte degli aiuti se li è mangiati per scoprirsi immediatamente dopo povero in canna? Lasciamo il centro storico con l’urgenza che torni ad essere un “centro”. L’obbiettivo primo deve essere superare questa situazione di noncittà. I restauratori a tutti i costi, quelli ocom’eraoniente son da temere quanto i demolitori; saprà la città stessa ridisegnare il suo nuovo volto.