Se le varie e colorate magliette su cui campeggiano proverbi e detti popolari tipicamente siciliani, molto in voga negli ultimi anni dalle nostre parti, fossero esistite una trentina d’anni fa, quella con la scritta “a megghiu parola è chidda ca nun si rici” sarebbe spettata di diritto allo scrittore Angelo Fiore. Anche se, considerando il personaggio, risulta oggettivamente difficile immaginare che l’avrebbe anche solamente provata. Palermitano, classe 1908, fu impiegato come interprete presso l’esercito americano in Sicilia, prima di dedicarsi all’insegnamento della lingua inglese negli istituti tecnici. A darci l’idea di una personalità schiva e riservata è Mario Farinella, che nel 1964 – pochi mesi dopo l’uscita de Il supplente – dedicandogli la terza pagina del quotidiano L’ora, dice di lui: «In città passa inosservato, pochissimi lo conoscono: non intrattiene rapporti con i suoi colleghi, non frequenta compagnie né ritrovi, non è iscritto ad alcun partito. È scapolo e non ha amici, neppure uno. La mattina si reca a scuola, svolge la sua lezione e via. Riservato, ombroso, quasi sgusciante. All’istituto lo chiamano “l’estraneo”». È la prima volta (e anche l’unica) che il nostro si concede al pubblico, e al giornalista che irrompe nella sua vita, più che nella sua casa, dichiara: «Vivo solo, con i miei genitori. Amici non ne ho. Le sole persone che conosco sono quelle dell’ambiente scolastico, professori, presidi, bidelli, ragazzi… e non sono cordiali con me, forse diffidano del mio carattere chiuso, mordace. Non mi considerano uno dei loro, eppure io tengo molto alla scuola, al mio mestiere di insegnante». Da queste poche frasi non risulta difficile immaginare il perché degli anni luce che separano Fiore da altri scrittori siciliani noti in patria e tradotti all’estero (Sciascia su tutti) e perché si collochi invece a margine della letteratura italiana novecentesca, in quel cantuccio destinato ai “casi letterari”. A tutto ciò contribuiscono anche uno stile complesso, secco e inesorabile ma, soprattutto, la frammentazione dell’io che caratterizzò l’autore, che non a caso trascorse gli ultimi vent’anni della sua vita con due valigie in mano, una contenente dei libri, una i manoscritti, passando da una pensione ad un ospizio, da un convento a un albergo, fino alla morte in solitudine, avvenuta nel 1986. A testimoniare il suo passaggio su questo pianeta di cui ci ricorderemo restano cinque romanzi pubblicati tra il 1964 e il 1981 (il già citato Supplente, Il lavoratore, L’incarico, Domanda di prestito e L’erede del Beato), preceduti da una raccolta di racconti, significativamente intitolata Un caso di coscienza. Una produzione non proprio vasta, legata dal filo conduttore di un mondo impiegatizio e burocratico in cui si dimenano personaggi la cui interiorità è sopraffatta dall’idea che la morte di Dio abbia lasciato l’uomo in balìa di se stesso, in un peregrinare senza fine in attesa dell’evento salvifico. Vale per Attilio Forra, giunto in un paesino rurale per insegnare, insoddisfatto del precedente impiego presso un Ufficio Anagrafe; vale per Paolo Megna, impiegato straordinario in un non meglio identificato ufficio; vale per Salfi e Falchi, il primo intento a ottenere la restituzione di una somma trafugata dall’ufficio d’Amministrazione da uno dei colleghi, il secondo a difendersi dalle loro calunnie e dalle maldicenze dei concorrenti. Personaggi distrutti da continue antinomie e profonde dilacerazioni, diversi eppure sempre uguali. Tra loro e, forse, un po’ anche all’autore. ____ foto di Letizia Battaglia
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