Quando si parla di corna e, per proprietà transitiva, di cornuti, non si può non pensare agli arbitri che, in automatico, sono comunque dei “cornuti”. Ed è inutile negarlo: nonostante nessuno di noi sappia dare una spiegazione certa al fatto che, quando un arbitro sta deliberatamente sfavorendo la nostra squadra del cuore, questi debba essere definito “cornuto”, non appena qualcuno nomina il sostantivo “arbitro” tutti noi vi abbiniamo l’aggettivo “cornuto”. Come se arbitro e cornuto fossero un binomio inscindibile. Ma non in tutti gli sport è così. Nel rugby, ad esempio, il rispetto nei confronti dell’arbitro è uno dei capisaldi che si insegnano fin dalle giovanili e fin dall’Under6 gli allenatori inculcano ai propri giocatori il principio che “la decisione arbitrale non si contesta, si accetta”. Per questo non vedrete mai un rugbysta andare in escandescenze contro una decisione arbitrale, per quanto questa possa apparire platealmente sbagliata. Così come non vedrete mai sugli spalti il pubblico fischiare, o urlare “arbitro cornuto”, dopo un fischio arbitrale non condiviso. Non si fa, e questo basta. È anche vero, comunque, che nel rugby, almeno a certi livelli, i giudici di gara sono aiutati dalla tecnologia. Nelle partite dei campionati francesi, inglesi (i più importanti a livello europeo) e del Super15 (una sorta di supercampionato che disputano le migliori squadre di Australia, Sud Africa e Nuova Zelanda) e negli incontri internazionali un quarto giudice sta in cabina di regia televisiva e tutte le volte che l’arbitro in campo lo ritiene opportuno riguarda le immagini e comunica al suo collega la sua decisione, che diviene poi quella definitiva. Non di rado si annullano mete assegnate ma che poi, rivedendo le immagini, risultano viziate da un passaggio in avanti o da un precedente fallo del marcatore. Ma anche senza la tecnologia, ai tempi del rugby pioneristico e ai livelli del rugby “pane e salame”, la decisione arbitrale è sacra non si contesta mai. Anche perché, a differenza di quanto accade nel calcio, dove la “giacchetta nera” è una specie di despota, nel rugby mima ad uso e consumo degli spettatori e spiega con le parole ai giocatori ciascuna delle proprie decisioni, argomentandole in modo chiaro e netto. Bisogna però ammettere che nel rugby gli arbitri sono anche aiutati dai giocatori che, in generale, non fingono, non tentano di ingannare chi deve giudicarli. Nel calcio a ogni minima spinta tutti si tuffano e poi si danno per morti oppure quando segnano un gol, anche se sanno di aver buttato dentro il pallone con la mano, esultano come matti; nel rugby questo genere di cose non accadono: nessuno finge di farsi male (e le occasioni per farlo non mancherebbero certo) e molto spesso è lo stesso giocatore a dire all’arbitro che la meta non è valida perché l’ovale gli è scivolato dalle mani un attimo prima di poggiarlo per terra. Il rispetto che si porta nei confronti del direttore di gara è così grande che non sono rari i casi in cui ad arbitrare un incontro viene chiamato un fischietto non terzo. Provate a fare una cosa del genere nel calcio; provate a far arbitrare un Fiorentina-Pisa a un livornese o un Milan-Juventus a un milanese. Si griderebbe allo scandalo. Qualche settimana fa, invece, l’incontro tra i sudafricani Cheetahs e i neozelandesi Blues, decisivo per l’accesso ai play off del Super15, è stato affidato al noto fischietto sudafricano Jaco Peyper senza che nessuno abbia gridato allo scandalo. Tutto questo per dire che in uno stadio di rugby non si vedranno mai episodi come quello raccontato in una celebre barzelletta, nella quale una donna, durante una partita di calcio non faceva altro che apostrofare l’arbitro con una serie di “cornutoooo” anche quando il poverino non commetteva errori. E alle rimostranze del pubblico, la signora si giustificò dicendo che meglio della moglie, chi poteva sapere se l’arbitro portava le corna?
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