Aprile 2014

I giochi ci parlano

Piccola divagazione dal linguaggio del Tressette alle immagini ricorrenti tra “Nanna”, Biribissi e Tarocco Siciliano


Salvo Bonaccorsi

Se un extraterrestre, o diciamo almeno uno svedese che abbia anche studiato l’italiano, si trovasse precipitato in uno dei piccoli centri della Sicilia, o in un giardinetto ancora ben frequentato dai giocatori come ad esempi la Villa Pacini a Catania potrebbe forse ancora oggi sentir parlare: di possesso di ammattatori, di buon gioco, napoletana, piombo, lisciare, strisciare e strisciare lungo, di battere e battere forte, la meglio e di chiamarsi fuori. O molte delle suddette dichiarazioni veder sostituite da gesti. In ogni caso non capirebbe nulla! Si troverebbe infatti nel campo minato dei “codici di gioco”, quelle sovrastrutture linguistiche o gestuali che da sempre integrano le regole formali vere e proprie di molti giochi e in particolare quelli “storici” di carte. Ed è oggi certamente necessario precisare che abbiamo accennato al vecchio codice del Tressette, perché non è cosa che abbia mai interessato i sociologi in Italia, e non era nemmeno tra le domande dell’ultimo censimento, per cui non abbiamo oggi statistiche o dati su cui basarci per sapere quanti, diciamo sotto i 20 anni, lo conoscano o lo abbiano mai giocato e possano riconoscere i significati di queste dichiarazioni. In particolare abbiamo riportato alcune denominazioni e comunicazioni consentite secondo un piccolo libretto pubblicato a Catania nel 1902 da un anonimo P.Z. (1). Piccoli manuali come questo, che fiorirono soprattutto nell’800 e nel ‘900, riportavano spesso le regole ma anche questi “codici” di comunicazioni consentite spesso in ambiti ristretti o ristrettissimi (un paese, ma anche una piazza, un singolo circolo o Casino dei Nobili o dei Mastri, o addirittura un tavolo). Fantastico pensare come si provasse a descrivere quasi l’indescrivibile, con la definizione “metrica” distintiva della Striscio dallo Striscio lungo: “La Strisciata è dello spazio di mezzo palmo sul tavolino; lo Striscio lungo è dello spazio di un palmo” . Nella stessa pagina ho ritrovato una espressione simile a quella, che ancora oggi ho sentito ripetere da Maestri di giochi anche più antichi, come i Tarocchi Siciliani, ad esempio a Mineo: “Questo non si potrebbe dire..ma noi lo diciamo”. Nella nota 1 si legge: “epperò in alcuni tavolini si permette, ma a rigore nol si potrebbe”. Queste espressione riassumono la potenza del linguaggio dei giochi come fatto convenzionale, nel senso di darsi delle regole anche di comunicazione che, se condivise, assumono una loro giustificazione. La stessa “condivisione” che sta alla base di qualunque “codice”. Nel campo del Tressette, che finora ha resistito insieme alla Briscola ed alla Scopa, come gioco di carte “Nazionale” arricchendosi delle nuove manifestazioni digitali (software o APP di gioco per PC, tablet e compagnia bella) certamente un po’ tristi proprio sul piano strettamente comunicativo e sociale, una sorta di “normalizzazione” almeno in certi strati sociali la crearono le famigerate regole del Chitarella, pseudonimo di una autore ignoto, che scrisse in latino maccheronico, nella forma quasi di detti proverbiali il: “De Regulis ludendi ac solvendi in mediatore, et tresseptem auctore Chitarrella. Delle regole di giocare e pagare nel mediatore, e nel tressette del signor Chitarrella” la cui prima edizione pare essere del 1840. In realtà il Chitarrella nelle regole del Mediatore imponeva che il codice linguistico si tramutasse in un codice esclusivamente gestuale ancora più subdolo, prescrivendo, in latino e nella gustosa traduzione in napoletano di una edizione successiva (giusto per aiutare lo svedese di cui sopra!) (2): 8. Interdictum est omnem sermonem, quia traditio est quatuor mutos hunc jocum invenisse. Solum permittitur buxare, idest super tabulam pulsare, lisciare, idest chartam reptare, et plumbare, idest chartam ammittere. Et hoc inter socios. 8. è projebuto non zò qua fosse lo partà, pecchè se dice che sto juoco fosse stato ammentato da quattro mute – Se po’ solo bussà, zoè sbattere ncoppa a la tavola; allisciare, zoè strascenà na carta, e piombare, zoè lassarela cadè ncopp’a la tavola – E chesto ntra li compagne. In quelle del Tressette invece, premesso che “Multa verba, et strepitus ludendo inter dicitur (è projebuto de parlà assaje e de fa fracasse” sono consentite le corrispondenti espressioni verbali. Un altro campo in cui mi sono imbattuto di recente è quello dei giochi di lotteria del 600-700. In esso, almeno in Sicilia, la fantasia comunicativa in questo caso dei ragazzini, basata sostanzialmente sulla ignoranza nella sua forma più pura e apprezzabile, cioè quella che ignora e “ricrea” dando dei nuovi nomi alle cose semplicemente perché non ci sarebbe alcuna utilità a fare lo sforzo di capire il reale significato delle cose, ci regala qualche curiosità e qualche sorriso. Qualche faticosa ricerca mi ha consentito credo di ritrovare una possibile origine “adulta” di quello che in Sicilia diventò il gioco de “a Nanna Pigghia Cincu”, e di gustare quindi tutti i fraintendimenti basati sulla interpretazione “fanciullesca”, come direbbe il Pitrè, di figure con altro significato. “A la Nanna pigghia-Cincu” è un gioco di lotteria per bambini oggi dimenticato, popolarissimo probabilmente già dal 700 in Sicilia, cui dedica una voce il Pitrè nella sua “BIBLIOTECA DELLE TRADIZIONI POPOLARI SICILIANE NEL VOL. XIII- GIUOCHI FANCIULLESCHI SICILIANI” del 1888. Pitrè lo definisce “già proverbiale nel secolo passato”. Il tabellone composto da 25 figure numerate, prevedeva nella medesima stampa la riproduzione più piccola delle stesse immagini che venivano ritagliate e appallottolate per formare delle “polizzine” (dette in siciliano pulisichhi) messe in un sacchetto per essere sorteggiate. Ancora a fine ‘800 la stampa veniva prodotta dagli “stampa-santi” palermitani e venduta a due centesimi di lira. Il gioco svolgeva come un antenato della roulette, con un capo-gioco di turno a riscuotere le puntate e fare i pagamenti; si puntavano noccioli di albicocca su una figura/numero e poi si estraeva. Se usciva la figura puntata il capo-gioco “pagava” quanto puntato. Se usciva il 23, detta appunto “A Nanna” pagava il doppio a chi la avesse puntata. Pitrè documenta alcuni modi di dire entrati nel linguaggio comune: “Dal numero dei giocatori e dal vocio che essi fanno è nato il modo proverbiale “Fari la Nanna pigghia-Cincu”, che significa far confusione, far chiasso, e talora anche tagliar corto e romperla; e l'altro simile: “Éssirici la Nanna”. Per ischerzo, poi, di chi è celebrato in forma ridicola si dice che è “'Nnuminatu 'nta la Nanna pigghia-cincu”. Infine Pitrè, confrontava le immagini con la “Smorfia romana” che era una delle tipiche rappresentazione iconografiche dei 90 numeri del lotto, ravvisando però la corrispondenza di soli 16 soggetti della “Nanna” su 25 e con notevoli differenze iconografiche. Cercando recentemente altri possibili “antenati” della “Nanna” ho reperito invece un esempio di Biribissi, che nella sostanza era il gioco analogo per adulti e con puntate in denaro, che a volte prevedeva invece una modalità di gioco analoga al Mercante in Fiera, in una stampa di origine romana e attestabile negli anni 1642-1691. In essa credo sia invece possibile ravvisare una perfetta corrispondenza di tutti i soggetti della “Nanna”, spesso con intere righe identiche in sequenza e notevoli analogie anche nel disegno e nella “postura” delle immagini, pur in una estrema semplificazione del segno e degli elementi grafici. Ma al di là della curiosa scoperta, in pratica di una probabile “madre” della “Nanna” (in sostanza la “bis-Nanna”!) quello che è interessante evidenziare è il significato della immagini originarie, soprattutto per le figure umane; Pitrè non ne faceva cenno, limitandosi a documentare le denominazioni data in Sicilia dai “monelli” che lo giocavano, ora abbiamo la possibilità di confrontarli con i significati veri. In particolare mi piace “giocare” col numero 4 della “Nanna”. Nel Biribissi Romano corrisponde al n.2 –ZANNI. Qualche piccola ricerca ci permette di scoprire che Zanni era, nella commedia dell'arte, la maschera forse originaria del servo sciocco o imbroglione, e per esteso assunse il significato di buffone o pagliaccio. Pare derivasse dal veneto “Zuan” cioè Gianni nome molto diffuso tra i contadini da cui provenivano la maggioranza dei servitori dei ricchi nobili mercanti veneziani. Era quindi una delle più antiche maschere della Commedia dell’arte che ai suoi primordi veniva definita a volte proprio “Commedia degli Zanni”. Pare infatti che i primi canovacci degli attori di strada improvvisassero per lo più litigi tra servo e padrone che venivano definiti anche “Ludi Zanneschi” o Contrasti comici. Lo Zanni si “sdoppiò” poi nel servo furbo (tipo Brighella) e in quello sciocco (tipo Arlecchino). Ecco… i “monelli” siciliani splendidamente ignari di tutto ciò e limitando i dati per la loro interpretazione alla figura mal stampata e grezza, ben al di sotto dei nostri voli pindarici, lo definivano: “Spata ‘n culu”! E ogni ulteriore commento è superfluo. Miglior sorte (forse!) avevano il “mattaccino”, nome antico di saltimbanco, giocoliere (dallo spagnolo matachìn, giocoliere appunto) che chiamavano, n.2 “spavintatu”, e “la Fortuna” chiamata invece “stenni muccatura” (cioè stendi moccichini, che sarebbero i fazzoletti da naso…). La stessa Nanna pigghia-cincu scopriamo essere in realtà la “Rufiana”: E qui mi fermo, ma comunque interessanti sono a parte quelle scontate, altre denominazioni, riportate dal Pitrè: 6.Stanga ‘n coddu (Spazzacamino), 7. Arrimina e tasta (Caldara), 12.Tabaccu e vinu (Todesco) riportando tra parentesi i corrispondenti del Biribissi romano. E concludo, diciamo per deformazione professionale, con qualche congettura e un sintetico parallelo con la iconografia dei Tarocchi Siciliani, a me particolarmente cari. Da alcuni elementi non sembrerebbe azzardato ipotizzare che alcune delle modifiche sulla iconografia dei Tarocchi nella versione siciliana, la cui provenienza originaria finora accettata è peraltro di area romana e che si venne formando proprio nel corso del 600, con ulteriori trasformazioni ancora a metà 700, possano essere state “trasportate di ritorno” da iconografie simili a Biribissi in uso del tipo analogo a quello della Nanna. Parlo “di ritorno” perché al contrario l’origine di alcune immagini dei tavolieri di giochi di estrazione o di percorso, potrebbe derivare proprio dai Trionfi dei Tarocchi, nati ai primi del 1400 come retaggio di simbologie e allegorie medievali. Nelle tavole di Birbissi e simili, a partire dal 1500 si arricchirono di mestieri e oggetti tipici locali, caratteristici dei giochi romani e associati a particolari numeri dalla tradizione numerologica popolare da tempi anche precedenti, poi sedimentatesi nelle varie “Smorfie”. In Sicilia, se si da credito alla ipotesi dell’arrivo tardo in Sicilia, proprio ai primi del 1600, del mazzo e del gioco dei Tarocchi, esso potrebbe essere stato preceduto da quello delle stampe e dei giochi di lotteria del tipo visto ma anche di quelli di percorso e puntata, simili al Gioco dell’Oca, cui accenneremo dopo. Potrebbero quindi essere stati questi ultimi ad influenzare le trasformazioni della iconografia delle carte stesse. Questo considerato che l’ambiente dei “cartari” stampatori e preparatori degli stampi in legno era presumibilmente lo stesso. Chiudo quindi con una sequenza di immagini a confronto. Lascio a chi voglia ulteriori analisi e commenti. In questa altra versione dei “Biribissi” romano notiamo la sequenza dei primi quattro simboli, Mondo, Sole, Luna e Stella, casualmente analoga alle quattro Arie con ruolo così peculiare nei Tarocchi Siciliani, che vediamo sotto in una antica versione dell’800: Come accennato ulteriori paralleli si ritrovano in declinazioni di giochi di percorso e puntata, graficamente simili al Gioco dell’Oca, detti “Gioco del Barone” (nel significato antico generico di uomo libero o di avventuriero da strapazzo). Può ancora una volta essere casuale il fatto che in Sicilia, secondo la Treccani, “barone” era anche la denominazione di un tipo comico del teatro siciliano, di cui tutti si prendono gioco. Osservando la cosa anche sotto questa luce, all’epoca, quando si dovette sostituire la carta della Papessa dei Tarocchi, si potrebbe spiegare l’innesto della “Povertà” o “Miseria” come Trionfo non numerato più basso al di sotto dell’1. Infatti in questi giochi e molti altri simili fino al 1800, il “baron” è associato alla azione “Tira da Tutti”, spesso abbreviata ed è rappresentato anche come casella iniziale (vedi Figura 5), prima del numero 1, e poi ancora molte volte per lo più con gesto di chiedere la carità, proprio perché associato all’azione del “Tira da tutti” cioè raccoglie una posta per ogni avversario dal piatto centrale. In sostanza “vince” su tutti gli altri..come capita alla strana carta della Miseria che solo nei Tarocchi Siciliani si ritrova a ricoprire il ruolo di numero “0” ma ad essere comunque una “briscola” che vince su tutte le carte dei semi normali. Ed anche il Fujutu (il Fuggito) la seconda carta non numerata dei Tarocchi Siciliani con l’usuale ruolo del Matto degli altri Tarocchi, cioè quello di “scusa”, carta che non può prendere ma non può essere presa perché “non sta alle regole del gioco” come si dice di quelli che di conseguenza chiamiamo pazzi, sembra avere una rappresentazione esatta sia nella Nanna, il n.2 lo spavintatu che nel “Mattaccino” del Biribissi, come già visto sopra. Nei giochi del “Barone” pare che si abbia quasi una triplice manifestazione che in qualche modo sembra essere confluita nell’originario Fujutu siciliano: Matto ma anche Tamburino e Pifferaio. Quest’ultimo, occupa sempre l’ultima casella che da la vittoria del piatto completo, e riporta spesso la definizione “TIRA TUTTI”, ricoprendo anch’esso quindi un ruolo unico e peculiare nel gioco come accade nei Tarocchi. La palla è stata quasi certamente una errata interpretazione o un cambio volontario, nella prima immagine e ancor più negli originali stampi in legno appare chiaro si trattasse di un tamburo. Sono solo congetture, curiosità assonanze forse più virtuali che reali, ma ogni tanto è bello provare a esplorare e ragionare sul linguaggio delle immagini così importante già anticamente in tutti i giochi, e tanto più oggi.

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BIBLIOGRAFIA E FONTI
(1) Regole del Tressette con l’aggiunta della Calabrese e del Tressette in 4 a chiamare. Scritte da P.Z., Tipografia del Commercio, Catania, 1902. Fonte: http://www.tretre.it/menu/accademia-del-tre/biblioteca-del-tre/pz-regole-del-tressette-ct-1902/#c1211
(2) Chitarrella, Regole di giocare e pagare nel Mediatore e Tressette. Con la traduzione in dialetto napoletano, posta a piè di pagina ed una giunta di altri giochi di carte per Giriale Zuchizù, Napoli, 1880