I giardini di Piazza Vittorio, novembre 2011 Di nuovo lunedì. Di nuovo, dopo alcune settimane scombussolate, fatte di minuti sconvolgimenti, turbamenti e scarti anche nell'ordine rassicurante della mia quotidianità, mi trovo a praticare la vecchia, cara consuetudine di percorrere i giardini di Piazza Vittorio per andare al lavoro. Alle mie spalle la basilica di Santa Maria Maggiore, in fronte a me la luce bassa e densa del sole nascente che illumina i profili dei palazzi e mi entra nella mente trapassandomi una frotta di pensieri. All'orizzonte l'azzurro abbagliante del cielo, in contrasto con l'ombra che mi circonda e mi avvolge come un'immersione in mare all'alba. Sotto i miei piedi l'umido della terra, nelle narici l'odore dell'erba bagnata. Nessun suono nella mia gola, nessuna parola sulle mie labbra chiuse. Nell'anima l'agognata, ritrovata sensazione di abbraccio panico, il dilatarsi dei polmoni in un respiro di amore universale che tutto contorna e tutto accarezza. Nell'estasi che mi pervade e mi dissolve io sono l'intero di quel che percepisco, sono alberi e siepi e rosse foglie cadute e cani che si scapicollano abbaiando e giostre immobili e deserte e sassi e marmi e gente che incrocio nel mio passare. Io sono io e sono tutto, perché tutto comprendo. Sono pianta animale essere umano. Vibro e pulso e silenziosamente ascolto ogni voce e ogni grido e ogni sussurro. Il sangue che mi scorre nelle vene mi lega a tutto il resto, in un'osmosi inarrestabile che mi colma di senso e mi fa toccare il velo che copre il mistero del sublime. Con gli occhi scruto gli occhi delle persone che incontro, il ragazzo svagato e sorridente di un suo pensiero segreto, la donna stanca con le borse sotto gli occhi, l'uomo che corre in tuta, vedo col cuore nei loro cuori. Sentendo in loro il mio stesso dolce peso, l'affanno squisito della finitudine, tragedia e ricchezza dell'umanità, invidia degli dei. Sono viva, viva, viva, e consapevole di esserlo. Di una consapevolezza che mi rende talmente salda, autentica, concreta, che tutti miei rovelli passati, presenti e futuri, i miei sentimenti, i miei desideri, trovano il giusto posto in un attimo infinito di armonia perfetta, insostenibile per una creatura mortale. Esplodo, e son quieta. Nel dolore c'è la gioia, nel tormento la serenità, nell'ebbrezza la pace. Sono pronta per un'altra settimana. Gianicolo, giugno 2012 Alle otto di sera ho salito il Gianicolo insieme alla mia Pandina. Non so com'è, di questi tempi ho sempre e solo voglia di luoghi elevati. Mi viene costantemente desiderio, necessità, smania, direi, di ascendere, ascendere, ascendere. Non credo sia da attribuire solo al caldo. E' come se non mi bastasse più guardare il cielo, sentirmene schiacciata. Vorrei toccarlo, proprio, con un dito, e anche con tutte e due le mani, possibilmente. Ad ogni modo, ieri sera tramonto di gloria. Io e la Pandina saliamo lentamente il vialone, gustandoci le trafitture dei raggi d'oro del sole che ci dardeggiano contro tra i rami scortecciati dei saldi, grandiosi platani, poi ci attestiamo senza fiatare innanzi al panorama di nuvole rosa che veleggiano senza meta nel cielo chiarissimo, sospinte da un insperato refolo di ponentino, mentre a mano a mano il disco fiammeggiante cala in un'apoteosi d'azzurro e le sagome delle persone davanti a quella sorta di schermo gigante in Cinemascope perdono tridimensionalità e umana gravità diventando gentili figurine di uno spettacolo di ombre cinesi, fino a che il fresco e vellutato manto della sera ricopre ogni cosa, e dalla parte opposta alla residua traccia dell'astro di fuoco ormai scomparso sale e si appunta brillando una perfetta falce di luna crescente che pare disegnata sulla volta celeste da una invisibile e precisissima mano titanica. Che sensazione di pienezza. Campidoglio, agosto 2011 Qualche sera fa, per arginare la sconfortante malinconia agostana che puntuale ogni anno mi si ripropone e che si accentua al calar delle tenebre, m'è venuto in testa di tuffarmi nella notte di Roma. Antica. Così, verso le undici, ho cominciato a far le feste al consorte: "Usciamo? Mi porti al Campidoglio? Andiamo a vedere la rupe Tarpea?" Il grande lavoratore, rincasato da poco, col boccone ancora sullo stomaco e il peso di mesi di lavoro sulle spalle, nicchiava sbuffando. Non gli andava, non gli andava proprio. Invece di rovine bimillenarie avrebbe voluto guardare, come ogni sera, gli specchi dell'armadio della camera da letto: in penombra, da supino, per quei trenta secondi necessari a chiudere gli occhi e sprofondare, da giusto qual è, nel solito sonno di piombo. Io però non demordevo, presa dall'urgenza di sottrarmi, per una sera, al dibattermi in quella sottile e familiarissima angoscia che sentivo già salirmi come l'acqua alla gola. Dopo più di una mezz'oretta di tiraemolla, il coniuge recalcitrante si è convinto a mettersi semi incosciente alla guida di uno scooterone a mezzanotte meno venti, e siamo partiti. In un baleno, percorrendo le strade semideserte, siamo arrivati a piazza Venezia, che il mio centauro ha costeggiato parcheggiando sull'adiacente piazzetta antistante la chiesa di San Marco, di fronte allo slargo di giorno più ingolfato di Roma, che a quell'ora, vuoto e tranquillo, tra i sampietrini lustri che riflettevano le luci dei semafori e lo squarcio di cielo scuro e barocco, pareva la porta d'accesso a un'altra dimensione, incastonata tra la mole bianca del Vittoriano e, giù all'orizzonte, la sagoma del teatro di Marcello. Uno scenario che ho brevemente contemplato in compagnia di madama Lucrezia, una vecchia amica di marmo con la quale non conversavo più da parecchi anni e che mi ha fatto piacere ritrovare. Quindi io ed il centauro, appiedati, ci siamo avviati verso il Campidoglio: superata l'Ara Coeli, abbiamo salito la scalinata tra i leoni di pietra, oltrepassando Cola di Rienzo, fino ad arrivare ai Dioscuri e al palcoscenico di una delle piazze più belle del mondo. Davanti a tanta magnificenza il centauro ha sospirato. "Che pena, pensare che ora qui c'è Alemanno." "Ma chissenefrega" ho replicato io beata. "Guarda qua: a questa piazza, a Roma, Alemanno je fa un baffo." E mentre lo dico mi avviene qualcosa dentro: sento che è vero; e che è vero anche per me, che m'accorgo improvvisamente di esser stanca, tediata, di soffrire, e di volermene un po' fare un baffo anch'io della mia angoscia; e così, improvvisamente, lì, al suono di quelle parole, tra le logge del palazzo dei Conservatori e la felice geometria delle losanghe dello splendido cortile di Michelangelo, mi cade dal petto una parte del peso che vi grava da un po' di tempo. Per un attimo mi brillano gli occhi, il cuore mi canta. Prendo per mano il mio ragazzone, lo tiro. "Vieni, dai, su, andiamo a vedere come sta la rupe, che fine ha fatto" e ci infiliamo nel vicoletto di fianco al Palazzo Senatorio, costeggiando le impalcature che lo cingono e che, insieme alle luci giallognole, creano un irresistibile effetto di sottosuolo riemerso da ricordi di vecchi sceneggiati TV ambientati in una Roma misteriosa e paranormale sepolti nella mia mente dalla prima infanzia. E io sempre coi sensi amplificati scruto, osservo e annoto tutto, godendomi fin dentro i pori della pelle la percezione di essere finita in Geminus, o ne Il segno del comando. Finito il budello, usciamo sulla balconata e ci scontriamo col panorama più mozzafiato dell'universo. Sotto di noi, deserta, immota, e tanto vicina che pare di poter stendere una mano ed arrivare a toccarla, si offre all'abbraccio dei nostri sguardi la distesa del Foro Romano in tutta la sua secolare maestosità. L'enorme frammento delle otto colonne del tempio di Saturno, drammaticamente e fatalmente innalzate in una vertiginosa tensione ultraterrena. E intorno, a corona, il biancore del tempio di Vespasiano e dell'arco di Settimio Severo, Più in là la basilica Giulia, il tempio dei Dioscuri, il lapis niger. Sull'estrema destra la macchia scura, mistica, del bosco sacro del Palatino. E ovunque punteggiato di chiese: San Pietro in carcere, San Giuseppe dei falegnami, la sagoma appena percepibile di quella dei Santi Cosma e Damiano. E in lontananza, verso il Colosseo, il costone su cui si erge la basilica di Santa Francesca Romana, col suo campanile medioevale. Per un istante mi blocco e davvero trattengo il fiato, avvinta dalla sensazione di essere immersa in un oceano primordiale, fuori dal tempo e dallo spazio. Ma poi la mia irrequietezza riprende il sopravvento, e, non appagata nemmeno da tanta meraviglia, trascino frenetica il mio compagno di scorribande su per la salita di Monte Caprino, verso l'obiettivo ultimo del mio viaggio della memoria: il giardino della rupe Tarpea, mitico sito di sommarie esecuzioni di traditori e storica meta di coppiette in fregola amorosa. Anche della nostra, ere geologiche addietro. Lo troviamo, come ormai da molti anni, chiuso, e in più occupato da casotti prefabbricati, camion e materiale per costruzioni. Però c'è ancora, e tra i lembi dei teli verdi che ce lo occultano alla vista cogliamo scorci che ne testimoniano l'incorrotta magia, nonostante tutto. Ridiscendiamo fino ad una panchina alle pendici della rupe, incastonata in una nicchia di freschezza immersa nel buio. C'è una grande pace, ed un'atmosfera arcana, densa, brulicante dell'invisibile vita che per centinaia, migliaia di anni è passata su questo colle. Restiamo a lungo seduti sul freddo marmo, sereni, ad ascoltare il silenzio gravido di vibrazioni. Parliamo anche un poco, ci viene facile in un luogo dove ogni cosa concorre a farci sentire esseri umani in armonia, legati dalle medesime intuizioni dell'inconoscibile e dall'emozione di esser sospesi insieme sul limite dell'ignoto. Sono momenti, questi, in cui mi sento una privilegiata, per conoscere questo familiare respiro dei secoli come può solo chi nasce e cresce nell'unicità di Roma. Dolori, angosce, tutto si lenisce, davanti alla religiosa potenza del passato che è giunto sino ai miei piedi e che ora, teso come un immenso arco, mi tiene saldamente unita alle esistenze di individui lontanissimi nel tempo, antichi e favolosi. E io respiro rinfrancata una fierezza che mi dilata i polmoni e mi rimette a posto il cuore e le viscere, ricollocando me al giusto posto nel mondo. Tornati sulla terra e nel ventunesimo secolo ridiscendiamo ancora lentamente il colle. Davanti al panorama del Foro esito di nuovo. Sarebbe un delitto voltargli le spalle senza sostare ancora un ultimo istante. Non posso andarmene se non me ne riempio ancora un poco gli occhi. Così di nuovo lascio errare lo sguardo, e vagare la mente. E mi viene da pensare a come il tempo ha eroso queste costruzioni monumentali. Guerre, saccheggi, accidenti atmosferici, ne hanno devastato la grandezza e compattezza, lasciando queste vestigia quale suggestiva impronta di un solenne e bellicoso splendore ineguagliabile nella storia dell'umanità. Ma nessun cambiamento è intervenuto nel breve intervallo della mia piccola storia personale. Le otto colonne del tempio di Saturno, e tutto ciò che le circonda, sono le medesime, identiche al periodo della mia infanzia. Non una pietra si è persa. Son passati gli anni, tanti, io sono cambiata, cresciuta, invecchiata: mi sono mossa, ho agito, sperimentato, e porto il carico di ognuno dei miei movimenti, delle mie azioni, delle mie esperienze, impresso su di me. Invece loro sono rimaste sempre lì, e, rispetto a quel breve soffio di esistenza, immutate, immutabili. Quest'idea esaltante mi fa girare la testa. Il formidabile tuffo in questo mare di significato mi rassicura talmente da spaventarmi e farmi sentire il bisogno di ancorarmi a qualcosa di concreto. Mi chino in avanti e appoggio il mento ad un ceppo della balaustra. E mi giro verso il mio accompagnatore: ma per un attimo accanto a me non c'è più mio marito, c'è mio padre. Sgrano le pupille. E' avvenuto davvero. Quarant'anni sono stati cancellati, azzerati in un lampo, e adesso l'immagine attuale combacia alla perfezione con un bianco e nero di allora. Non avrei mai chiesto tanto ad una notte romana. Eppure è accaduto l'insperabile, l'inconcepibile. Il tempo ha volato a ritroso, e io sono tornata bambina.
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