Tutto ha un prezzo, anche ciò che si disprezza. Un normale sistema commerciale prevede un pagamento a fronte di un servizio o di una merce. Sistemi anche antichi hanno sempre previsto che un compratore si atterrà al prezzo fissato da un venditore, ferma restando la possibilità di “pattiare”, che è più bello di “patteggiare”. Ci fu un tempo, dalle mie parti, che il sistema commerciale era tanto sviluppato da collocarsi al centro dell’allora centro del mondo: il Mediterraneo. Nell’Isola del Sole si commerciava di tutto. E tutto aveva un prezzo. L’epoca alla quale faccio riferimento prevedeva i prezzi in “onze”, moneta che ha segnato un’epoca molto ampia. Ed esistono migliaia di volumi che analizzano i commerci siciliani nei secoli d’oro. In assoluto il ‘600 fu quello dove noi fummo i migliori, insieme con gli olandesi (ma loro in giro per il mondo, noi nel nostro mare, anzi nel mare nostro), i genovesi e i catalani (ma questi ultimi già in fase calante nel mentre si affacciavano gli inglesi che sarebbero cresciuti, e molto, nei due secoli successivi). A Palermo, a Messina, a Trapani, a Siracusa, a Scicli, a Terranova, si vendeva e comprava di tutto, e con tutti quelli che avevano voglia di fare affari. Su tutti i nostri cugini dirimpettai, che in quell’epoca erano governati da una strana forma di associazione, un Ordine religioso ma militare, selezionatissimo su base classista ma sempre pronto alle deroghe. Insomma, dai nostri porti e dai semplici caricatoi partivano le galee cariche di grano, soprattutto, ma anche altre decine di tipologie merceologiche. E per ciascuna c’era un prezzo, in onze e suoi multipli, fino al tarì. Orzo, avena, tessuti, animali vivi e morti, cordame, riso, tabacco, pietre e terra, armi e metalli, orbace, neve e legname prendevano la via del mare per le vendite “extra Regnum”. Ma la merce in assoluto più preziosa, più ancora dell’oro e dell’argento, e i cui prezzi stabilivano l’intero sistema commerciale, erano gli schiavi. Nella piazza di Palermo e in quelle di Siracusa e Messina si tenevano le aste per il collocamento della preziosissima “merce”. Attività uguale e contraria di quella che si effettuava a Tunisi e soprattutto ad Algeri. Uguale perché in tutti quei mercati si contrattavano i prezzi di uomini (per i lavori agricoli e per metterli al remo delle galee), bambini e ragazzi (per i lavori agricoli e per servire in casa e nelle masserie), donne giovani (per servire in casa e nei lavori agricoli), bambine, ragazze e donne mature (per servire in casa) e contraria sol perché in Sicilia (e nel resto del mondo cristiano) si commerciavano schiavi di religione islamica e di etnia africana, turca, mediorientale e balcanica e schiavi di religione cristiana e di etnia balcanica (soprattutto rumeni e bulgari, che nel linguaggio dell’epoca erano genericamente chiamati “russi”) nel mentre in Algeria (e nel resto del mondo islamico) si commerciavano schiavi di religione cristiana e di etnia europea e balcanica e rarissimamente schiavi di religione islamica e di etnia balcanica. Tutti, ovvero sia i mercanti cristiani come quelli musulmani, commerciavano schiavi e schiave di religione ebraica. Tornando ai prezzi di questo ricchissimo commercio internazionale, appare evidente dalle tabelle pubblicate dagli storici specialisti che gli stessi prezzi variano moltissimo secondo l’epoca (vedremo più avanti il perché), il momento, la congiuntura economica, e financo la moda (avete letto bene, ho scritto “moda”). Se l’asta degli schiavi era effettuata in tempo di guerra, allora a spuntare i prezzi più alti erano i maschi tra i quindici e i cinquanta anni d’età a patto d’essere sani e di forte corporatura. Erano destinati al remo delle galee e ciascuno poteva costare fino a 300 onze per arrivare in casi rari anche a 500 (si tratta di cifre notevolissime, se si pensa che negli stessi momenti un ottimo cavallo da guerra poteva costare 200 onze). In tempo di pace i prezzi di uomini e donne tornavano simili con alcune eccezioni: sul mercato africano spuntavano prezzi notevolissimi le ragazze tra i quattordici e i venti anni di religione cristiana e di pelle bianca. Si ha notizia di ragazze siciliane, calabresi, pugliesi, toscane e balcaniche vendute ad Algeri e a Tunisi per oltre mille onze ciascuna, e tutte destinate alle case dei ricchi locali. Esattamente quello che accadeva a Palermo o a Messina, dove le ragazze provenienti dall’Africa più erano giovani e più nera la loro pelle più s’alzava il prezzo, insieme ad alcune ragazze di etnia turca, ritenute le migliori per servire in casa. A guadagnare cifre invero notevolissime da questo commercio erano i mercanti che procuravano la “materia prima”. Pirati e corsari, dell’una e dell’altra parte. Nei secoli 15, 16 e 17, quando il commercio degli schiavi mediterranei raggiunse il massimo sviluppo, erano soprattutto i tunisini a furoreggiare sulle coste siciliane (centinaia gli episodi di rapidi sbarchi finalizzati a catturare i ragazzi, guidati da “basisti” locali o da siciliani convertiti all’islamismo), tanto quanto i siciliani facevano sulle coste “barbaresche”. Ma su tutti, in assoluto, erano i Cavalieri di Malta, “frati” che avevano quale missione la guerra agli infedeli. Nella loro missione era previsto il prelievo di schiavi, ma non tanto sulle coste nemiche, quanto sulle navi battenti bandiera con la mezzaluna intercettate e attaccate in qualunque parte del Mediterraneo da una delle galee con la croce ottagona (e dire che la flotta dei Cavalieri di Malta non superò mai la ventina di navi armate). Sempre in tema di prezzi di questa “merce” richiestissima, è da notare come la libera vendita in appositi mercati consentiva ai parenti di schiavi catturati dal nemico di poter “acquistare” il congiunto e riportarlo a casa. In tal caso leggere le tabelle dei prezzi è estremamente importante, perché si evince che il normale tariffario subiva notevolissime eccezioni. Accadeva quando un privato congiunto del catturato (oppure un’istituzione ad hoc come, per esempio, l’Ordine dei Padri Mercedari) si diceva disposto a pagare per la liberazione. In quei casi non si faceva riferimento all’età, al sesso e al potenziale lavoro al quale si destinava lo schiavo. Tant’è che per liberare il Vescovo di Catania catturato dai tunisini mentre navigava verso Roma, si dovette pagare una somma pari a quella sufficiente a comprare venti tra ragazzi e ragazze della “migliore fattura”. A proposito della moda, appena cennata ad apertura dell’articolo. Il mercato degli schiavi mediterranei subì una fortissima contrazione verso la fine del ‘700. Si continuò a commerciare la pregiata merce, ma secondo tendenze molto diverse rispetto al ‘600: non si combatteva con le galee, e non servivano tanti rematori, quanto, piuttosto, i ragazzini e le ragazzine che nelle case dei ricchi patrizi siciliani erano considerati quello che oggi diremmo un “must”. Tenere in casa “il negretto” era sinonimo di ricchezza per i nobili palermitani che nella quotidiana passeggiata in carrozza alla “Marina” sfoggiavano il paggio in livrea sempre pronto al loro servizio. E mai mancarono le transazioni commerciali per avere in casa una ragazza nera. Utile nei lavori di casa e della masseria, poteva diventare – se bella (e i canoni di bellezza dell’epoca erano molto diversi dagli attuali) – una compagnia fissa nel letto del “padrone”. Se molti siciliani siamo scuri di pelle non è sempre per merito delle creme abbronzanti, come bene sanno gli eredi di quella famiglia di nobilissimi sciclitani che hanno costruito un esemplare albero genealogico familiare che ha portato alcuni di loro fino a La Valletta a servire la Sacra Religione (per entrare nella quale è necessario dimostrare d’avere quattro quarti di “limpieza de sangre”) pur sapendo che l’antico avo era il figlio di una schiva nera appartenente ad altra famiglia nobile di Scicli. Ma guai, ancora oggi, a dimenticare di aggiungere “barone” nei biglietti da visita. _____________ Bibliografia essenziale: Giovanni Marrone: “La schiavitù nella società siciliana dell’età moderna” Matteo Gaudioso: “La schiavitù in Sicilia dopo i normanni” Giuseppe Giarrizzo: “Malta e Venezia fra corsari e schiavi” Giuseppe Bonaffini: “Corsari schiavi siciliani nel mediterraneo (secoli XVIII-XIX) Domenico Ventura: “Pirateria, guerra ed economia in Sicilia tra medioevo ed età moderna” Domenico Ventura: “Aspetti sociali della schiavitù nella Sicilia medievale” Charles Verlinden: “Schiavitù ed economia nel Mezzogiorno agli inizi dell’età moderna” Domenico Ligresti: “Per la storia della schiavitù nella Sicilia in età moderna” _____________ Immagine: Padri mercedari francesi riscattano schiavi cristiani ad Algeri (incisione del 1662).
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