In parrocchia, da piccolo la frequentavo, la catechista diceva che era un luogo bellissimo nel quale tutte le anime meritevoli, meritocrazia stabilita dal clero ovviamente, contemplavano e godevano della presenza di Dio. Un luogo dove, aggiungeva, c'erano anche immense schiere di angeli, di santi e di martiri, di arcangeli e di beati. Tutti insieme a contemplare per l’eternità lo splendore di Dio. L'idea di paradiso è stata questa per tutta l'infanzia. Con l'ingresso nell'adolescenza, invece, alcune domande cominciarono a far capolino nella mia mente, tipo "ma tutte le anime degli esseri umani vissuti prima dell'avvento del cristianesimo, dove sono andate a finire?" Domanda lecita se si considera che il paradiso, come l'inferno ed il purgatorio, sono luoghi connessi alla nascita della dottrina cristiana. Ancora: ma le anime di coloro che professano altre religioni che destino hanno? Scoprii che se esisteva un paradiso dei cristiani, ce n’era uno anche per gli ebrei e pure coloro che professano la religione islamica o quella induista avevano il loro paradiso privato. Giunsi all'età adulta senza più certezze sulla creazione di Dio e nell'idea di paradiso, inferno e purgatorio. Da me ritenuti, piuttosto, come mondi inventati, mondi paralleli necessari a legittimare la dualità buono - cattivo, premio – castigo, indispensabili ad alimentare l'illusione di continuare a vivere dopo una breve e spesso difficile esistenza. Il paradiso, un posto dove bontà e giustizia infinita sono il premio di una vita che per molti è vissuta tra ogni sorta di atrocità e ingiustizie umane. Oggi vivi il tuo piccolo o grande inferno e immagini ciò che sarà, post mortem, la tua destinazione finale. E mentre il paradiso rimane un luogo non definibile, il mondo continua a somigliare ai gironi infernali danteschi nei quali, quotidianamente, milioni di individui vivono un'esistenza fatta di sofferenze e oppressione mentre altri individui, insensibili al dolore che non li riguarda, coltivano la cinica speranza di non esserne toccati e di poter continuare a parlare di paure e sofferenze meno importanti, le proprie. Si respinge oltre il proprio confine il dolore di chi fugge dall’orrore della guerra, dalla disperazione della fame, dalla miseria materiale e morale. Si costruiscono barriere. Si fa finta di non vedere che il mare che è stato la culla delle civiltà mediterranee, giorno dopo giorno si gonfia di esseri umani annegati. In questo inferno reale e quotidiano c'è chi alimenta la paura verso lo straniero, verso chi proviene da una cultura o professa una religione diverse dalla nostra, verso i disperati e gli affamati da soccorrere, da ospitare e da curare “a spese nostre”. Si paventano minacce alla sicurezza, al lavoro che ci possono rubare, alla violenza che può dilagare nelle nostre già poco tranquille esistenze. Si teme l'invasione, la mescolanza di razze, il confronto con culture che non si comprendono, con religioni diverse dalla nostra. Una certa politica ha prosperato e si diffonde ancora alimentando queste paure. Aiutata in questo, da individui sempre più inclini a formare la propria opinione non su informazioni accurate e riflessioni approfondite ma su pregiudizi, storie di fantasia, leggende metropolitane, bugie artefatte. E’ l'insieme di queste opinioni, non più basate sulla conoscenza diretta o documentata ma su stereotipi e conclusioni sommarie, a costituire la fetta più consistente dell'attuale opinione pubblica. Purtroppo è anche quella che va a votare. La nostra attuale società vive di stereotipi, di conclusioni sommarie nate da ipotesi non accertate e neanche vissute. E' più comodo in verità, perché evita di fare lo sforzo di guardare la realtà in dettaglio, di informarsi e riflettere sulla stessa, di provare a studiarla prima di trarre conclusioni. Invece l’opinione pubblica giudica, senza conoscere, soprattutto quando ha a che fare con fenomeni che la disorientano e la turbano come l'immigrazione, la crisi economica o la violenza. E' questa, ancora purtroppo, l'opinione pubblica che piace ai populisti della politica, quei politici che ancora oggi usano le convinzioni popolari poco fondate come una bandiera, raccogliendo ovviamente consensi. La Lega nord ha prosperato per anni sullo stereotipo del migrante del sud d'Italia, sfaccendato e corrotto. Oggi, per adeguarsi ai tempi, usa i migranti cattivi e sporchi che arrivano da terre al di là del Mediterraneo. Anche la politica che oggi governa, quella che ama definirsi progressista e riformista, usa gli stereotipi per entrare più facilmente nella testa della gente. Quotidianamente sentiamo ripetere che l'Italia riparte, il Paese volta pagina, l'Europa ci guarda. Sono le frasi fatte usate dalla politica renziana, spesso accompagnate da pochi esempi o numeri che sono, altrettanto spesso, buttati lì a caso. Ma tanto basta per convincere e rendere mansueta un'opinione pubblica che non si preoccupa di studiare, verificare, confrontare e riflettere su ciò che i nostri politici affermano. Gli stereotipi renziani, per giunta, sono una vera specialità. L'ultimo in ordine di tempo ma non ultimo, c'è da scommetterci, stigmatizzava il comportamento di alcuni lavoratori che avevano partecipato ad un'assemblea sindacale, definendo gli stessi come coloro che "non amano l'Italia" e che con il loro comportamento avevano “causato un danno al Paese". I fatti sono noti: i lavoratori in servizio all'interno del Colosseo avevano partecipato ad un'assemblea sindacale ed i turisti fuori dai cancelli, ovviamente chiusi, avevano atteso che la stessa terminasse. Per alcuni giorni abbiamo ascoltato la narrazione populista renziana di quanto accaduto, ossia che una moltitudine accaldata, stanca e afflitta di turisti aveva dovuto attendere la fine di un'intollerabile assemblea sindacale, per poter visitare il monumento più bello d'Italia. Il Ministro dei beni e delle attività culturali era esploso con un "ora basta". Il Premier lo aveva seguito a ruota, ben felice dell'occasione offerta per fare ciò che sa fare meglio: minacciare i lavoratori e bastonare i sindacati, tutti "nemici dell'Italia". Minacce di sanzioni, di ricorso a decreti d'urgenza del Consiglio dei Ministri, di schedatura di tutti i rivoltosi assembleisti. Il tutto amplificato dai media nazionali, da molto tempo disabituati a guardare la realtà e ridotti a megafono della politica. E l'opinione pubblica? L'opinione pubblica, diseducata di ogni senso civico, ha dato libero sfogo agli istinti più abietti. In quei giorni in cui il Governo dava spettacolo, bastava fare un giro su alcuni social network per rendersene conto: post che inneggiavano alla cacciata dei sindacati dai luoghi di lavoro; che reclamavano la testa dei rivoltosi; infuriati; scandalizzati. Insomma, a furor di popolo si reclamava giustizia sommaria. Uno, in particolare, lo ritengo significativo dello stato di decadimento morale e civile in cui versa la così detta “opinione pubblica”. Più o meno, recitava: "ma con tanti disoccupati che ci sono, ancora diamo uno stipendio a questi farabutti che non trovano di meglio da fare che chiudere il Colosseo per partecipare ad un'assemblea sindacale?". Ecco, mi viene da pensare che questa, come la politica, è l'opinione pubblica che ci meritiamo. Perché in realtà le bugie e le furbizie del governo renziano, passato il penoso spettacolo offerto dallo stesso, sono saltate fuori. L'assemblea sindacale era stata convocata secondo i dettami e con le modalità di legge ed era stata svolta perché i lavoratori del Colosseo non vedono i loro soldi, relativi al salario accessorio (straordinario e indennità per lavoro festivo) legittimamente guadagnato, da più di un anno. E l'opinione pubblica? L’opinione pubblica vive di stereotipi e pratica l’unico sport in cui si è sempre distinta: la guerra tra poveri.
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