È sorprendente scoprire quanto sia complicato tentare un compendio di un autore conosciuto a menadito da decenni e di cui si è gelosi estimatori. Si potrebbe ipotizzare il contrario: e invece l'intimità che si è instaurata tra lui e noi, quel caldo e confuso groviglio di fogli di carta e affetti, pagine stampate e vita vissuta, ostacola la freddezza e la linearità indispensabili in un esercizio di analisi critica, e riduce la necessaria distanza dall'argomento per studiarlo e sezionarlo con sufficiente chiarezza. Dev'essere senz'altro questa la causa delle mie difficoltà ad elaborare qualcosa di sensato (ed ecco, alla quarta riga già ho fatto un bisticcio di parole con il tema del mese) su Achille Campanile: che considero non il mio scrittore preferito, ma piuttosto uno di famiglia, per lo sterminato numero di ore della mia vita passato felicemente in compagnia dei suoi geniali, esilaranti e al contempo tremendamente seri giochi di smontaggio e decostruzione del discorso. Da dove cominciare a dar conto dell'originalità, della grazia e ricchezza del dono di un umorista oggi assente dal panorama culturale di massa dopo esser stato considerato il precursore del teatro dell'assurdo, fratello maggiore di Ionesco e di Beckett? Dopo interi pomeriggi di vuoto mentale passati a inseguire labili ispirazioni fissando con occhi vitrei lo schermo del pc decido di prendere il toro per le corna iniziando da dove per me tutto è iniziato, e cioè da Manuale di conversazione, la raccolta di racconti che ci ha fatti incontrare, io ragazzina agli albori della mia esistenza, e questo maturo signore al tramonto della sua: non però la copia che mi arrivò in casa, portata da mio padre, nel 1976, fresca di uscita nelle librerie, e trafugata dal medesimo assieme ad altri tesori letterari all'epoca del suo repentino cambio di domicilio, ma una ristampa del 1988; scoprendo che in quell'arco di tempo il libro è stato rieditato solo tre volte, tiratura alquanto misera per la produzione di uno scrittore che, oltre a sfornare a getto continuo testi di uno humor bislacco, elucubrato e raffinato eppure universale, supremamente divertenti e spesso persino toccanti, godibili ad ogni età e a qualsiasi livello culturale, è da considerare, a giudizio dei critici più illustri, da Carlo Bo a Umberto Eco, da Guido Almansi a Enzo Siciliano, da Oreste del Buono a Stefano Bartezzaghi, a suo modo ma a pieno diritto, un classico del Novecento: un vero e proprio nonsense a perfetto suggello dell'opera del più fecondo e genuino maestro del nonsense. Sfoglio le pagine del Manuale puntando dritta a "La mestozia", uno dei miei racconti preferiti. Fulcro e motore della trama sono i sistematici errori di battitura di una dattilografa, vere e proprie malefatte di un "genio dell'idiozia, stella di prima grandezza dell'imbecillità, mostro del cretinismo" secondo il suo esasperato datore di lavoro, dal quale non fa in tempo ad esser licenziata che già si vede riassunta dal di lui amico scrittore fallito, entusiasmato dalla rosea prospettiva di poter carpire da quelle sviste bizzarre spunti buoni a rianimare le sue smorte qualità narrative (sviste che in effetti faranno la sua fortuna, rendendolo ricco sfondato e assai grato all'artefice del suo successo, da lui lautamente ricompensata, tanto da suscitarle un imprevisto rimorso di coscienza per le pecche nelle prestazioni rese a un capo che la tratta con tanto riguardo, rimorsi che la indurranno alla catastrofe: "si mise a studiare bene dattilografia, s'esercitò, pose attenzione nel lavoro, diventò impeccabile. Fu il crollo"); e anche adesso, come sempre, attaccando il fatidico passo letto centinaia di volte in quarant'anni, mi sento gorgogliare in gola una scarica di irreprimibili risatine, una salva di mortaretti strascico di un fuoco di passati esplosivi sghignazzamenti che cova sotto la cenere e che basta una soffiata per riattizzare. Si sta assistendo allo sfogo del principale col suo amico, in piena crisi di nervi per le sciagurate prodezze della dattilografa. Dopo una breve, parossistico assaggio di esempi dell'imbarazzante suo operato - "il bandito tornò inzuccherato" in luogo di "inzaccherato" - il vascello della narrazione viene senza indugio puntato, per calcolata spericolatezza del suo manovratore Campanile, direttamente sugli scogli di una paradossale scemenza, con ripetuti cozzi e sublime schianto finale: "Saverio aveva ripreso a scorrere i manoscritti. A un certo punto esplose in un urlo che nulla aveva di umano. "Ma guardate," singhiozzò, letteralmente, "guardate! Avevo dettato: "Abbiamo al mare gare automobilistiche e nautiche. Per il pubblico balneare, naturalmente, le nautiche sono molto più interessanti delle automobilistiche. Può dirsi, senza tema di sbagliare, che il numeroso pubblico di questa ridente spiaggia sia qui unicamente per vedere le nautiche". Bé, questa criminale, questa delinquente, quest'essere privo di scrupoli, mi ha scritto tutte le nautiche senza la "u". Tutte le nautiche son diventate natiche, signori miei!" Torvo, paonazzo, quasi stesse per scoppiargli una vena in petto, Saverio urlava, addirittura, agitando i fogli dattilografati. "Udite," disse "udite!" Si mise a leggere: "Abbiamo al mare le gare automobilistiche e le natiche. Le natiche sono molto più interessanti delle automobilistiche." Capisci? Le natiche sono più interessanti. Lo credo. Ma aspetta: "Può dirsi, senza tema di sbagliare, che il numeroso pubblico di questa ridente spiaggia sia qui unicamente per vedere le natiche. C'è una lotta accanita per accaparrarsi i posti migliori per vedere le natiche". Roba da farsi sequestrare per offesa alla morale. Le è parso una volta di capire natiche, e tira avanti imperterrita, senza domandarsi se per caso abbia inteso male. O, magari, crede che sia stato io a sbagliare. Perché è anche presuntuosa. Non la sfiora il minimo dubbio se sia o no verosimile che io le detti cose indecenti. Guarda qui. Avevo dettato: "Le gare automobilistiche hanno schiacciato le nautiche" e lei, tranquilla, serena: "hanno schiacciato le natiche". Ma basta. Questa è l'ultima che mi fa. Questa fa traboccare il vaso"." A dodici anni questo brano mi faceva star male dalle risate. Potevo riscorrerlo da capo in fondo all'infinito, l'effetto si sprigionava invariabilmente. Il mio puro organismo psichico, scevro dal sofisticato cinismo dell'età adulta, ignaro delle teorie sui meccanismi scatenanti la comicità - parecchie delle quali elaborate molto dopo che Campanile le aveva messe in pratica - costituiva il terreno perfetto dove testare queste stravaganze. La linda freschezza dei suoi congegni interiori garantiva la più immediata e piena reazione, della più ampia e soddisfacente intensità, a quell'automatismo a orologeria, attestando l'eccellenza della trovata, che con l'incredibile levità di un solletico di piuma - caratteristica precipua di Campanile è il suo garbo, la sua completa estraneità a ogni tipo di volgarità - otteneva un effetto così poderoso. Quel quel minuscolo disguido lessicale,quell'infima incongruenza tra la parola giusta e quella sbagliata, era inversamente proporzionale all'abisso semantico che spalancava e che inghiottiva il senso comune, imponendo la sostituzione della visione logica con quella illogica, rendendo possibile, e soprattutto accettabile, immaginare, al posto di un panorama di yacht, lo spettacolo di un gigantesco sedere posato sulla spianata di un bagnasciuga. Vi sono una marea di situazioni di questo tipo, nella sterminata produzione letteraria di Campanile: momenti in cui la realtà viene distorta, deformata, dall'interno, saggiando i risultati di un intoppo minuscolo che mette in crisi l'apparente solidità della norma, come nel brano soprastante, o anche esclusivamente svolgendo, con la puntualità inesorabile di una pignola e implacabile Arianna, il filo del suo significato fino allo sconfinamento in luoghi alieni al pensiero umano. È il caso del racconto che dà il titolo alla raccolta, Manuale di conversazione, che ha questo folgorante esordio: "Le grammatiche su cui si studiano le lingue saranno utilissime per impararle, ma non altrettanto per la logica e il buon senso. Il che tuttavia, non rappresenta un danno in ogni senso. Anzi potrebbe contribuire a dare ai rapporti fra le persone un carattere quanto mai spensierato e fantasioso che conferirebbe alla vita un aspetto dei più piacevoli. Dalla grammatica inglese: "Portaste il binocolo?" "No, ma portai il vostro ventaglio." Col che s'imparano parecchi vocaboli, non c'è dubbio. Ma non è chi non veda un ventaglio esser tutt'altra cosa che un binocolo. Non c'è niente in comune tra i due oggetti. Come è possibile parlare di ventaglio a chi vi chiede notizie del binocolo? Vediamo: dove, quando e perché si può domandare a qualcuno se ha portato il binocolo? In teatro, o in occasione di una gita in luoghi panoramici, o per esigenze belliche. Ora, ammetto che in un teatro possa essere utile anche un ventaglio, benché abbia tutt'altra funzione e non sarà certo esso che mi permetterà di apprezzare le bellezze di un corpo di ballo. Ma su una montagna! Che ne faccio d'un ventaglio, se ho bisogno di un binocolo? Non parliamo poi d'una casamatta o della tolda d'una nave da guerra. Immaginate un generale nel suo osservatorio o un ammiraglio sul ponte di comando, che durante l'infuriare della battaglia, dovendo seguire le mosse del nemico, domandi all'aiutante di campo: "Portaste il binocolo?" e si senta rispondere: "No, ma portai il vostro ventaglio". Anche ammesso che faccia molto caldo, in quel momento il comandante ha bisogno di guardare. Forse gli autori degli esercizi di traduzione immaginano un mondo di stolidi. Ecco un altro dialogo della grammatica inglese: "Mamma, comperasti la tovaglia?" "No, ma comperai il rasoio per tuo fratello." Una famiglia di pazzi, evidentemente. Pazza la madre, che immagina si possa apparecchiare la tavola col rasoio; e pazza la figlia, che dal manuale non risulta essersi minimamente turbata alle parole inconsuete della vecchia insensata." Achille Campanile tiene moltissimo alle sue eccentricità: con coerenza estrema le individua e le cura, non solo nella sua poliedrica attività di romanziere, autore di teatro, elzevirista, giornalista, sceneggiatore cinematografico, critico televisivo, ma anche negli accadimenti della sua vita, che racconta come una sua opera (come del resto ogni opera rassomiglia alla sua vita). Si deve senz'altro a un suo vezzo l'incertezza del suo anno di nascita, 1900, 1899 o forse, chissà, addirittura 1897; è sicuro solo il giorno, 28 settembre, e il luogo, Roma. E a Roma, all'inizio degli anni venti, convince il padre, redattore capo alla "Tribuna", a farlo assumere come correttore di bozze. Da lì passa a "Idea nazionale", dove viene destinato alla cronaca; e poiché, non fidandosi delle sue capacità, non gli fanno scrivere nulla, si adatta a recuperare dai cestini le notizie scartate. Un giorno riesuma la notizia della morte di una vedova, spirata sulla tomba del marito che andava ogni giorno a visitare. La rielabora a modo suo e la intitola: "Tanto va la gatta al lardo." Silvio D'Amico, che cura la terza pagina, osserva : "O è un pazzo o è un genio". In quegli anni comincia l'irresistibile ascesa al potere di Mussolini: ed è nel ventennio fascista che Campanile dà il meglio di sé. In tempi di censura e di tronfia retorica l'umorismo fu per molti un rifugio e una strategia di sopravvivenza, nonché di resistenza al regime, l'assurdità essendo spesso il mezzo (si pensi a Petrolini) per far passare inosservati, alle maglie di una censura tanto spietata quanto ottusa, la satira e lo sberleffo contro il potere e i suoi rappresentanti. Ma nei testi di Campanile questo elemento, pur presente e pregnante, non è intenzionale, non ricercatamente "politico". Il suo attivismo letterario è autonomo e autosufficiente, non apologetico o contestatario di alcunché. Achille Campanile non è un militante: è antifascista negli esiti, per effetto collaterale, non nei propositi. I suoi sfrenati giochi con le parole e nelle parole risentono, in fondo, dell'influenza culturale dello stile futurista che predomina in quel periodo: ma il suo, dice Enzo Siciliano, è l'eco di un futurismo disinnescato di qualsiasi miccia superomistica. Campanile è antifascista non perché crede che il fascismo sia da combattere, ma perché non prende sul serio il fascismo e i suoi ammennicoli come non prende sul serio - e per farlo lo prende sul serio, dimostrando che pigliare un concetto alla lettera significa scardinarlo, renderlo irriconoscibile e inservibile, in ultima analisi renderlo ridicolo - qualsiasi altro atto o fatto, trattandoli come eventualità quanto mai precarie e mutevoli, destinate alla finitudine come tutto ciò che riguarda l'uomo: come l'uomo stesso. Molti sono i modi in cui Campanile strapazza amabilmente la realtà, o meglio, la rappresentazione di essa. Ne enumeriamo alcuni: 1) amplificandola. In Ma che cos'è questo amore c'è uno scompartimento in cui vien fuori che non uno, non due, ma tutti gli occupanti di uno scompartimento ferroviario si chiamano Carlo Alberto. Il che porta al corollario seguente: l'unico tra tutti che non si chiama Carlo Alberto esclama gravemente "Signori, m'accorgo che la mia presenza in questo scompartimento è di troppo", si alza e se ne va. 2) abbassandola. In Se la luna mi porta fortuna un marito tradito soffre le pene dell'inferno in una notte insonne: "Un triste destino aveva afferrato come in una morsa la sua vita". Al mattino il cameriere gli porta del bicarbonato ed egli rinasce. Non era stato il dolore dell'anima, ma quello delle viscere, a tormentarlo... "Quello che aveva creduto avvenisse nel suo cuore, avveniva invece nel suo stomaco." 3) cancrizzandola. Nello stesso romanzo, il marito tradito contesta ad un amico di essere l'amante di sua moglie. A questo punto i due uomini, disperati, cercano di salvare la loro amicizia minacciata dagli obblighi di odiarsi derivanti dallo scandalo dell'adulterio e progettano di prendere un appartamentino per vedersi segretamente. Filippo conclude esclamando: "Ma che mia moglie non sappia!" 4) depotenziandola con l'anticlimax. Si grida "uomo in mare!" e tutti pensano a qualcuno che affoga. Campanile fa gridare "uomo in mare!" di chi sta facendo il bagno, perché, preso alla lettera, anche chi fa il bagno è un uomo in mare. Un globetrotter che fa il giro del mondo a piedi non è diverso da un globetrotter che si accinge a fare il giro del mondo a piedi: in Campanile troviamo quest'ultimo che annuncia di essere globetrotter, si attira l'ammirazione degli astanti, e poi, alla loro richiesta di descrivere luoghi ed episodi, spiega che lui è globetrotter da quella mattina. In Agosto, moglie mia non ti conosco, una virgola fa precipitare bruscamente il picco della commozione. Il vecchio Gedeone ritrova sulla spiaggia l'amico Suares che è naufragato con tutti i passeggeri della nave che li stava portando in porto. "Salvi!, gridò, "sono salvi! Questa è bene la voce del mio vecchio amico Suares. La riconoscerei tra mille!" E cadde in ginocchio, avendo inciampato in un sasso." Umberto Eco sostiene che la natura del comico campaniliano si comprende solo oggi, alla luce di tanti studi di pragmatica della comunicazione come una strategia fondata sull'implicito che richiede la mutua cooperazione dei parlanti. È il motivo per cui, alla domanda "Sa l'ora?", non rispondiamo "sì". Campanile rompe questa cooperazione costantemente, la intacca dalle fondamenta. In Giovanotti, non esageriamo!: "- La stessa frase, detta in Inghilterra, significa una cosa, detta in America ne significa un'altra. - Tu cerchi di trarmi in inganno. - Te lo giuro. La frase "io sto qui" detta in Inghilterra significa "io sto in Inghilterra"; detta in America significa "io sto in America". - È stranissimo." Campanile, insomma, con grande serietà, prende in giro il linguaggio in quanto veicolo del pensiero, primario prodotto della mente umana. Perché in realtà è proprio l'uomo il suo bersaglio ultimo: l'uomo che vede negli altri come quello che trova in se stesso. Perciò non è caustico o moralistico, ma, dietro l'apparenza in "un clima rarefatto e tagliente" di un "humour immobile, secco, lineare" secondo le parole di un critico dei suoi esordi, svela tutta la sua tenerezza, la sua romanesca bonomia, il suo profondo amore per i suoi simili, un senso di fratellanza che spesso e volentieri gli stringe il cuore. Non è moralista perché non giudica né tanto meno condanna, limitandosi a investigare il fondo della logica d'ogni cosa senza distinguere tra ciò che è buono e ciò che è cattivo. Come a Terenzio, nulla di ciò che è umano gli è estraneo. E se si diverte - perché si diverte: non c'è un solo passaggio nei suoi scritti, persino negli errata corrige, che sia calcolato, artificioso, non meramente superfluo o gratuito, o anche solamente strutturato secondo un fine che sia riconoscibile - a cambiare la disposizione della realtà per svelarne l'arbitrarietà, la prossimità all'assurdo che sta fuori della porta o dietro l'angolo, lo fa per non esorcizzare, ma ameno mitigare la paura dell'assurdo supremo della morte. Toccare con mano il nonsense significa prendere familiarità col nonsense definitivo, quello che non ha risposta, farselo amico, giocarci assieme, addolcire la pillola che prima o poi dovremo mandar giù tutti. Per questo leggere Campanile è, oltre che una delizia per l'intelletto, un conforto per l'anima. "Il tempo è nello stesso tempo umorista e antiumorista. Regola generale: quasi tutto quello che fu concepito per far ridere, col tempo finisce per far piangere; quasi tutto quello che fu concepito per far piangere, col tempo finisce per far ridere. Corollari: uno scrittore umoristico è talvolta triste per i posteri; uno scrittore triste è talvolta umorista per i posteri. In conclusione bisogna decidersi: si vogliono far ridere i contemporanei o i posteri? Spesso, se si vogliono far ridere i contemporanei, si faranno piangere i posteri; e, se si vogliono far ridere i posteri, bisogna far piangere i contemporanei. Lo stesso ragionamento va fatto per il piangere: spesso, se si vogliono far piangere i contemporanei, bisogna rassegnarsi a far ridere i posteri; e, se si vogliono far piangere i posteri, niente vale quanto il voler far ridere i contemporanei. Però, le cose che in origine volevano far ridere, e ce col tempo non fanno più ridere, per questa ragione fanno talvolta ridere. Quindi il tempo finisce per essere sempre umorista.".
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