I toni si sono ormai smorzati, ma una cosa è stata utile nella polemica innescata dalle dichiarazioni di Roberto Vecchioni all’Università di Palermo: riflettere su cosa vuol dire esser siciliano. Il senso del suo messaggio era il seguente: “Io amo la Sicilia, proprio per questo dirò qualcosa che non farà piacere, non sono parole di getto ma meditate. La Sicilia è bella, ma questo non basta a renderla un luogo dove si ama e rispetta il Bello. I siciliani non sanno riconoscerlo, apprezzarlo e difenderlo. Loro non rispettano le regole e questo contribuisce ad esaltare il Brutto: infatti c’è un modo di guidare allucinante e il codice della strada non è rispettato. Io detesto quelli che non difendono la Sicilia. La Sicilia è un’Isola di merda.” Non c’è da scandalizzarsi. Nessun siciliano è in disaccordo, nessuno può esserlo. Sappiamo bene quale schifo si cela dietro i bei paesaggi e i grandiosi monumenti dell’Isola. Sappiamo benissimo, però, che il problema non è tanto nei centauri senza casco o nel parcheggio selvaggio. Sono cose che ci fanno incazzare, arrabbiare e indignare, ma le cose che ci feriscono sono altre: la mafia, la clientela, l’eterna quiescenza al non-stato, l’intima violenza del nostro agire. Non tutti i siciliani, ovviamente sono così, anzi. Le prime vittime, anche eccellenti, della mafia sono state isolane, migliaia di anonimi piccoli imprenditori ogni giorno si oppongono al racket. Un popolo di eroi? Sì, perché questa è terra che, purtroppo, ha ancora bisogno di eroi. Ma c’è un’Italia, non è (spero) quella di Vecchioni, che pretende dalla donna Pippina verduraia che sbatta la porta in faccia ai boss e nel contempo esprime aziende che, prima ancora di metter piede nell’Isola, cercano la protezione di cosanostra. Il discorso del cantautore ha indignato non tutti siciliani e non tutti per gli stessi motivi. Sicuramente definire Isola di merda la Sicilia non ha fatto loro piacere. Le parole sono importati e Vecchioni, che con le parole ci campa e ne ha rispetto, lo sa bene: ha riflettuto se usare o meno quel termine e alla fine ha deciso di scatenare una reazione forte, più che una provocazione una scossa. Discutibile secondo me, ma alla fin fine efficace. Molti si sono indignati perché non è mai bello guardare la pagliuzzona negli occhi degli altri e non vedere la trave nei propri. Lo abbiamo rinfacciato tante volte a tedeschi, spagnoli, inglesi e francesi quando, generalizzando, hanno definito il Bel Paese via via sporco, corrotto, mafioso, criminale ecc. Poi ci sono quelli che hanno fatto notare che la Sicilia è anche la terra delle donne Pippine, degli Impastato, dei Fava, dei Falcone e dei Borsellino, dei Carnevale e dei Chinnici, dei Pio La Torre ecc. che hanno contribuito a far nascere nei siciliani, in tutti i siciliani, quella coscienza anti-mafiosa, quegli anticorpi che altri angoli della penisola si sognano. Il pio Veneto, l’eterna Roma, la diligente Milano, la civile Emilia stanno piano piano venendo scavalcati da quella linea (parafrasando Sciascia) che trasformerà la penisola in una penisola di merda. Insomma se una cosa dovessi rimproverare a Vecchioni, anche per la sua storia e la sua arte, è che non si può generalizzare. Il suo discorso l’ho trovato di una banalità e superficialità disarmante. Da un uomo di sensibilità e cultura come la sua mi sarei aspettato un’analisi dei mali siciliani (e/o meridionali) un po’ più approfondita. Se si parcheggia in tripla fila non lo si fa per mero piacere, ma perché nelle nostre disastrate città il trasporto pubblico è una chimera, perché dal dopoguerra in poi non si è investito abbastanza in infrastrutture, in strutture e in cultura. Non è il discorso di chi si piange addosso, ma è un dato statistico: la rete stradale, ferroviaria e autostradale è un fitto reticolo nel Lombardo-Veneto, mentre a sud della linea Gustav diventa una rete a maglie larghissime. Le scuole del nord hanno il tempo di disquisire sul presepe e il crocifisso, mentre in Sicilia, tra banchi anteguerra e edifici fatiscenti, è già un miracolo (malgrado le LIM) se si può fare una lezione frontale decente. Non sono sicuro che una scuola media della provincia pavese riceva gli stessi fondi di una dell’agrigentino. Si dirà la colpa è della classe dirigente siciliana, vero, è così ma non completamente. Il depauperamento costante delle regioni meridionali è funzionale a quella meravigliosa macchina che è l’Azienda Italia. Per un centesimo che giunge al Sud ne tornano indietro almeno due: i nostri carrelli della spesa sono pieni di prodotti (spesso anche scadenti) di provenienza settentrionale, i nostri studenti abbandonano l’università o si spostano a studiare al Nord, contribuendo allo spostamento di capitali dal meridione verso settentrione; aziende agricole, grande distribuzione, fornitori di servizi che operano al Sud hanno sedi sopra la linea Gotica. Il solito lamento del meridionale. Abbiamo la peggiore classe dirigente immaginabile, le nostre università sono in mano a persone incompetenti che il più delle volte sono state assunte con la complicità della politica. Lo sappiamo e, qui sta la colpa, non siamo capaci di esprimere alternative valide. Non sono un amante della teoria dei complotti, anzi, ma da almeno un decennio (con il contributo fattivo degli sciagurati governi Crocetta) si nota un attacco costante sul piano mediatico dell’Isola. Vecchioni, in fondo, è uno dei tanti episodi. Il festival del pregiudizio è infinito. Se il pubblico dipendente siciliano è scorretto, assurge a categoria antropologica della popolazione siciliana.[1] Se gli stessi fatti accadono a Sanremo si tratta di semplici e meri delinquenti. A Genova o a Bassano del Grappa dopo una calamità la gente si tira su le maniche, al sud invece stando ai massmedia si gratta la pancia aspettando fondi e aiuti dallo Stato. Se un coglione massacra di botte una donna, al Nord è l’ennesimo caso di femminicidio, al Sud è l’esecrabile retaggio di ataviche tradizioni patriarcali. La Sicilia è il luogo principe del malaffare, ed è ancora una volta metafora dei mali nazionali. È qui che divengono evidenti tutte le criticità. Per l’italico sentire comune, circoscriverle all’Isola equivale a risolverle. Milano o Roma sono salve. Mera illusione, io direi che si tratta di nascondere la spazzatura sotto il tappeto. La Sicilia è e resta la metafora degli incubi d’Italia. La causa per molti è chiara: lo Statuto. Lo Statuto siciliano è fonte di tutte le sventure dell’Isola, questa è un’ipotesi sposata da tante persone, molte delle quali siciliane. Una classe dirigente come quella isolana non è in grado di usare uno strumento complesso come lo Statuto d’autonomia e dunque è bene sospenderlo. Come non essere d’accordo, salvo che è un teorema stilato su confusione tra ipotesi, corollari e tesi. Se lo Statuto non funziona non lo getto via, getto via la classe dirigente, e per fare questo lo riformo affinché il ricambio sia garantito. È facile cadere nella retorica separa-autonomo-indipendentista, non è nelle mie corde, non lo è per nessuno che abbia due grammi di sale in zucca; ma lo Statuto della Regione Siciliana non è carta straccia, è il frutto di un processo secolare di rivendicazioni e lotte, che partendo da una non fantomatica peculiarità isolana e imboccando spesso strade sbagliate e sanguinose, ha portato al riconoscimento istituzionale di una identità reale. Perché di questo si tratta, e questo dà fastidio ai più. Identità non è una parolaccia, nel caso siciliano è un dato di fatto. Antonio Borgese definiva la Sicilia “più di una regione, meno di uno stato” e ogni buon siciliano non vive con lacerazione la doppia, la tripla identità di siciliano, italiano ed europeo, anzi si tratta di un completamento necessario in un mondo che marcia all’insegna della globalizzazione. Che lo Statuto siciliano sia da riformare non c’è dubbio, che la Sicilia tutta sia da rifondare nemmeno, ma puntare il dito contro la Carta, come fatto da taluni intellettuali nostrani quali Giafar al-Siqilli al secolo Pierangelo Buttafuoco, rischia di apparire come una sterile provocazione: non si butta l’acqua sporca con tutto il bambino. E Vecchioni, suo malgrado, ha contribuito a dare nuovi argomenti a tutto questo. Alla tentazione, antica quanto la Sicilia, di sperare in un Deus ex machina, un salvatore forestiero, un cavaliere senza macchia e senza paura che possa riscattare l’Isola, io preferisco il mito di Colapesce,[2] l’uomo di Sicilia che alla arrogante cecità di un sovrano straniero oppone il sacrificio personale, alla gloria la salvezza dei suoi connazionali… altro che Isola di merda... ____ [1] È da notare che Vecchioni a Palermo ha definito il siciliani “la razza più intelligente”. Le parole sono importanti: razza non ha senso. [2] Ma potrebbe essere Peppino Impastato, Giuseppe Fava, Salvatore Carnevale ecc.
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