Gennaio 2016

Sampieri COME UN DESTINO

Brani tratti dal racconto dello storico


Enzo Sipione

Nel 1907 una sciagura assai grave s’abbatté in casa Papa. La nonna, che allora era una giovane madre, ne fu sconvolta, ed un bravo medico di famiglia suggerì di portarla fuori, affinché distraendosi potesse rimettersi dalla crisi [...] Si escluse Pozzallo come troppo popolata e sporca, non si tenne in conto Donnalucata, perché troppo distante, e si evitarono, dopo alcune perplessità, certe località minori come malagevoli e solitarie e restò quindi, per esclusione, Sampieri. I venti chilometri che distava da Modica sembravano tanti: tre ore di carrozza sono infatti la quarta parte di una giornata, ma le esigenze della salute non ammettono riserve né calcoli di tempo. Sampieri era un piccolo scalo di bastimenti, che caricavano prevalentemente carrube destinate a Malta e sbarcavano cretaglie, destinate al piccolo commercio locale. C’era una dogana, una chiesa edificata dalla pietà di don Eugenio Trono, al quale, secondo che si racconta, certi contrabbandi di grano erano riusciti contro le previsioni; una ventina di casupole di pescatori e due o tre case di villeggiatura. Sampieri infatti era toccata, a qualche chilometro da quello che con un po’ di fantasia poteva chiamarsi il centro, dalla linea ferrata, che riduceva le tre ore di carrozza da Modica a poco meno di due: un bel guadagno, per non dire dello spasso, del brivido di avventura e d’imprevisto che rappresentava prima della grande guerra un viaggio ferroviario nella estrema provincia di Siracusa. Vittorini lo ha già descritto mirabilmente e non è che da allora le cose siano molto mutate, ma la gente si è abituata ai più comodi trasporti automobilistici e, nella maggioranza, ha disertato quei poveri treni sonnolenti. Si scelse dunque Sampieri, dove sulla scogliera verso ponente esistevano già alcuni fabbricati. Lo spirito pratico suggerì però di non comprare un sito qualsiasi, ma di fissare l’attenzione su certi magazzini seminudi e scoperchiati, dei quali solo i muri esterni resistevano egregiamente. I pescatori del luogo ne indicarono la proprietà nella signora Pandolfo, alla quale entro una quindicina di giorni si presentarono nonno e bisnonno, con un’aria un po’ misteriosa, quale sogliono assumere i siciliani che si accingono a trattare un affare. La signora Pandolfo faticò non poco a ripescare nella sua memoria i magazzini di Sampieri e buttò una cifra: seicentocinquanta lire; i compratori replicarono cinquecento e l’affare fu concluso in quattro e quattr’otto. Tornando, i due nonni non cessavano di compiacersi per la riuscita dell’affare - una affare d’oro, ne erano convinti - ma se avessero richiesto di comprare un pezzo di terreno vasto il doppio di quei magazzini l’avrebbero ottenuto con una ottantina di lire. *** Così, fra i miei ricordi, remotissimo è quello di Sampieri. Ci andavamo a metà giugno, ogni anno, per fermarci fino a tutto luglio e talvolta, partiti i nonni per i Calanchi, ci tornavamo ancora, una volta fino ai primi di ottobre, quando il bagno non poteva più farsi [...] Assai presto ci emancipammo della schiavitù, troppo piccolo borghese, della spiaggia grande e preferimmo gli scogli sotto casa, prospicienti un’isola semisommersa. Quest’isola, priva di nomi, ne ricevette moltissimi da noi: l’anno in cui fui rinviato in greco la chiamai l’isola degli aoristi; l’anno in cui m’innamorai per la prima volta, con eccessiva banalità, isola dell’amore; e ancora, isola del vascello fantasma; isola addolorata; isola senza-valore; isola malsicura; isola porca. Tutti nomi simbolici del romanticismo di un ragazzo e (per fortuna) del suo superamento. Usufruendo della scogliera al piede di casa abolimmo tutte le soluzioni di continuità e non ci fu quasi differenza fra l’essere a mare e l’essere dentro. Ogni giorno così, per almeno cinquanta giorni ogni anno [...] Di uscire non uscivamo, anche perché fin verso gli anni cinquanta Sampieri era poco più di una campagna, dove alle dieci di sera tutti stavano già a letto; ma ci piaceva restar sul terrazzo, o dietro alla finestra, fino a tardi, guardando il mare e la luna e prestando l’orecchio ai rumori, se può dirsi così, del silenzio, intermezzati dal frinire delle cicale o dal passaggio del treno lontano. Erano ore di grande raccoglimento, saranno state le undici della sera, che promuovevano un processo pacifico di maturazione interiore, indicandoci come non spiacevole il nostro destino [...] Gli anni si scandivano così sulle estati di Sampieri: estate del 1944, la guerra non è finita, ma dalla Sicilia è ormai trascorsa, può quindi tornarsi a Sampieri. Estate del 1950: ho conseguito la licenza liceale, andrò all’Università [...] *** La lunga pace silenziosa, accarezzata dal frusciare del palmizio o interrotta dall’ansimare del treno lontano, la gioia di quella libertà con la sola scadenza della stagione, sono peculiarità esclusive di quella assenza di pena e se ne può essere assenti solo a Sampieri e in nessun altro luogo, fosse pure il Paradiso. C’è di più: trovandosi altrove, lontano, in angustia, l’idea che quando vogliamo e solo se possiamo sempre scampare in quella casa, aiuta a sopportare qualunque cosa, anche la più travagliata, come cosa concludibile, il cui fastidio potrà al massimo essere un ricordo remoto [...] Estate del 1955: sono già laureato: la casa è sempre nostra: lo sarà ancora alla prossima estate? È questo l’interrogativo angoscioso, che tiene sempre desta la nostra paura. Sono già un uomo fatto, ma Sampieri mi consente di ritornare ad essere il ragazzo di prima... Perciò vado spesso sulla terrazza e sto là, fermo al sole, per un’ora di seguito, per imprimermi nella mente il paesaggio, nel caso che fosse l’ultima volta che lo guardassi da quel luogo ancora nostro. Ad est, in fondo alla spiaggia, i ruderi dello stabilimento, con il fumaiolo elevato ancora, altissimo nel cielo, come una sfida alla distruzione e alla maceria circostante. A nord-est la collina vignata, a ridosso della spiaggia grande, che ha colori violacei sul far della sera, mentre in pieno giorno è di un giallo caliginoso, che lascia appena intravedere gli edifici della Picciona. Qua, a due passi, il muro nudo della casa dei Favacchio, dove una frase mussoliniana finisce di sbiadire, e il prospetto laterale della casa terrana dei Ciaceri, con le persiane mezzo sconnesse. Ad ovest solo mare, ed accucciata ai nostri piedi l’isola, alla quale non vorremmo dare l’estremo nome di isola del rimpianto... Che cosa è in fondo l’amare le cose, se non questa confusione fra la realtà e l’impressione che ne abbiamo fissato dentro di noi? È Sampieri un luogo geografico del quale può farsi il punto o non piuttosto la stanza ininterrotta di quel poema che fu la nostra giovinezza? [...] Sampieri come un destino gioioso è rimasto immune: uno spazio piccolissimo fuori del tempo, dove la memoria della giovinezza è, essa stessa, ancora giovinezza. [tratto da Paolo Militello, "Il Giornale di Scicli", 25 luglio 2009]