Giugno 2016

I PIACERI DEL fumo passivo

Note a margine di un vizio altruista


Giuseppe Traina

Sono un fumatore passivo, felice di esserlo. Attenzione: tredici anni fa questa frase avrebbe significato, per me, che mai e poi mai avrei fumato e dunque sarei stato felice di non diventare mai un fumatore attivo. Tredici anni dopo (cioè a tredici anni dalla legge Sirchia, emanata dal ministro – ohibò – d’un governo Berlusconi), questa frase significa che sono felice che qualcuno mi sfumacchi intorno: meglio se all’aperto, s’intende. Possibile? Possibile, sì. E provo a spiegare come mai sono passato dall’odio feroce verso chi ammorbava i miei dintorni a questa strana forma di felicità. In primo luogo perché, incredibile a dirsi in terra italica, il rispetto di almeno questa regola – semplice, non ambigua, evidentissima: “VIETATO FUMARE” – è ormai un dato acquisito, incontestabile, incontestato: solo qualche strenuo soldato giapponese s’ostina a fumare, nel proprio territorio di recluso (una stanza, un angusto cortiletto, una cella). E penso con tenerezza a un mio amato maestro, libertario difensore d’un suo diritto al fumo eppure ben consapevole che “la mia libertà finisce bla bla bla…”. Vorrei anche evitare che noi non fumatori, vittime per tanti anni dell’intolleranza altrui, ora che la battaglia è vinta diventassimo intolleranti a nostra volta. Meglio concedere al nemico almeno l’onore delle armi: nel mio caso, l’ammirazione. Basta pensare al coraggio che ci vuole per aprire a piè fermo, ogni mattina, uno di quei pacchetti un tempo anche molto ben disegnati, ora tristemente istoriati da predizioni funeste, a carico di polmoni, cuore e altri organi piuttosto utili alla vita dell’uomo. Poi, diciamolo!, la storia di un fumatore passivo è anche una storia di rapporti d’amicizia. Qualcuna, prima della legge Sirchia, anche malamente finita, proprio per l’intolleranza del fumatore a rispettare il diritto a respirare del non fumatore. Ma, adesso, come rifiutare l’invito/appello d’un carissimo collega che cerca compagnia quando deve lasciare l’amato ufficio per poter fumare all’aperto? Lavoratore poco italico e di caratura calvinista, gli ho visto spesso buttare la sigaretta fumata a metà (o appena iniziata) perché al chiuso lo richiamava il dovere, manifestandosi sotto forma di file di studenti in attesa… Infine, bisogna essere onesti, è anche una questione estetica: e non penso tanto alle foto in bianco e nero di quel mio amato scrittore circonfuso dal fumo d’una Chesterfield, perché potrei pensare, come contrappeso sulla bilancia letteraria, a quell’altro, anche più amato, che millantava nei suoi romanzi non poche giovanili fumate di puzzolenti sigarette ultraeconomiche (e sono certo che, salutista com’era, abbia mentito anche su questo). No, la domanda è un’altra: come si può, da fumatore passivo, resistere al profumo d’un tal tabacco da pipa o di certi sigari di cui non saprei ripetere il nome? Quando ascolto un paio di cari amici fumatori di sigari cubani o quando andavo a trovare un altro amico che pipeggiava nel suo meraviglioso studio (scrigno di scienza, sapienza ed esperienza) mentre mi raccontava d’un edizione completa di “Lacerba” o di Ernesto Rossi o di quel senatore nostro omonimo… beh, allora capivo e ora capisco che il fumatore d’un buon sigaro o di buon tabacco da pipa è (e forse non sa di esserlo) un altruista, che immola la propria salute per il beneficio olfattivo degli amici, fumatori passivi che dopo aver vinto la battaglia di una legge che li tuteli, possono ben permettersi di esprimere la loro riconoscenza. Magari con uno scrittarello come questo che avete appena finito di leggere.