Eugenio Bennato era l’ospite più atteso della VI edizione del Taranta Sicily Fest che si è svolto a Scicli il 20 agosto scorso. Operaincerta lo ha incontrato prima del concerto. Eugenio, da una quindicina di anni porti in giro il progetto “Taranta power”. Perché lo ritieni ancora attuale? Perché evidentemente si tratta di un progetto sensato, che tende a far uscire dall’Italia aspetti che appartengono alla nostra cultura. Com’è nato il progetto? Ricordo che ero a New York per un concerto e, stando in un posto così stimolante, pensavo al mio Paese e mi chiedevo che cosa avrebbe fatto l’America se avesse avuto la tarantella nella propria tradizione musicale. Mi sono risposto che l’avrebbe certamente resa famosa in tutto il mondo! La taranta è una magia che appartiene al Sud Italia, è uno specifico nostro, nella quale c’è una componente estremamente contemporanea che è legata alla contrapposizione con la cultura dominante. Io mi sono inventato questa accoppiata di termini, “Taranta” e “Power”, perché “Tarantella” è una parola, diciamo così, abbastanza fuorviante, mentre invece la taranta è più legata al carattere rituale e trasgressivo di questo ballo. “Taranta Power” ha contribuito all’esplosione di una coscienza. E la Taranta giustifica la presenza dell’Italia nella World Music, cosa che ne fa un fenomeno importante e contemporaneo. Quanto è cambiato il tuo percorso in questi anni? È cambiato, certo, perché oggi la scommessa è non è più ripetere un ritmo che si è diffuso, che ha un suo valore e rimarrà per sempre, ma è importante che tutto questo venga applicato al presente. È quello che sto facendo con una fusion rispettosa dello stile ma trattando temi fondamentali perché la musica è un elemento importante per superare le incomprensioni e soprattutto per aprire il dialogo. Una delle specificità della tua musica è quella di unire, di mescolare. Sul palco musicisti di diverse provenienze, nelle orecchie di chi ascolta diverse sonorità. Ed è un mélange che funziona. Perché questo non funziona invece nella vita di tutti i giorni? Dovresti chiederlo a chi non ci riesce. Io ho fatto una scelta estetica e culturale e ho utilizzato la musica per poter dialogare con gli altri. Ma è chiaro che fare musica è un percorso privilegiato, anche se si sceglie un genere difficile, sperimentale, di rottura. E i messaggi riescono ad arrivare ugualmente anche senza l’utilizzo dei canali commerciali. Ad esempio “Brigante se more” l’hanno cantata durante le manifestazioni dei forconi in Sicilia così come la cantano a Bergamo Alta quando vogliono rivendicare qualcosa. E questo senza che sia mai passata in radio. La forza della musica popolare… Non era scritto da nessuna parte che la nostra musica etnica si rafforzasse e vivesse. Potevamo rassegnarci a fare la fine di gran parte dei Paesi europei, che hanno perso la propria identità culturale, e invece c’è una risposta forte, musicale, una scelta fatta da una gran parte dei ragazzi del Sud Italia, e non solo, che è quella di contrapporsi alla sottocultura televisiva e alla globalizzazione per evitare di perdere la propria identità. Allora, viva “l’Italia degli eletti”, lo diceva Pasolini trent’anni fa, e, riprendendo un mio testo, viva “i tamburi del villaggio”. Dunque viva la voce della nostra identità, le favole che ci raccontavano le nostre nonne, le ninnenanne, e viva questa taranta trasgressiva che si contrappone alle mode planetarie. Rileggendo la chiacchierata che avevamo fatto un po’ di anni fa, mi dicevi di vedere un’Italia che stava cambiando. Sei ancora della stessa opinione? Non ricordo con esattezza che cosa ti abbia detto allora, ma la prova che l’Italia sia cambiata l’avremo stasera. Il fatto che oggi ai miei concerti ci sia un pubblico straordinario fatto anche da ragazzini è rivoluzionario e mi fa pensare a un’Italia nuova. Le notizie che ci arrivano dal resto del mondo però non sono confortanti. Quando aspettavamo il Duemila ci immaginavamo un inizio di secolo colorato, fantasticamente evoluto. Dobbiamo prendere atto che non eravamo preparati a questo inizio di millennio. Nessuno si immaginava di dover assistere, per esempio, agli estremismi religiosi che mettono a dura prova il nostro equilibro e che ci chiamano a compiti estremi come l’accoglienza o il dover resistere alla tentazione di rispondere con violenza alla violenza. Mi rendo però conto che fronteggiare una certa follia è più facile facendolo da musicista che da politico, se vuoi controbattere con la cultura un’altra cultura che è fortissima, ma che ha delle frange estremamente inaccettabili. È inutile fare i perbenisti dicendo che bisogna per esempio comprendere l’Isis, perché l’Isis è qualcosa di mostruoso. Noi siamo usciti dalla seconda guerra mondiale pensando di non vedere più quel genere di mostruosità e invece adesso ne stiamo vedendo anche di peggio. Personalmente ho fiducia nella musica perché è la forma più importante di dialogo, perché un afflato del sentimento, del cuore.
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