Le dicotomie prospettano strutture di insiemi agli antipodi, e sono scorciatoie binarie che risultano accettabili nella misura in cui ci si abitua ad aderire a convinzioni stereotipe, che se radicate nel tempo e trasformate in senso comune vanno a costituire la base del nostro pensare e agire quotidiano. Tramite il senso comune si crede di scoprire come stanno le cose: si può solo scoprire invece qual è il loro posto nello schema esistente delle cose. Il nostro mondo stereotipato non è necessariamente il mondo come lo vorremmo e come ci renderebbe più felici: è semplicemente il mondo come ce lo aspettiamo. Il patriarcato è radicato su contrapposizioni tra princìpi antitetici, presentati come contrapposizioni “naturali” che sarebbero nate con l’origine del mondo, mentre in realtà ne occultano la natura composita. L’organizzazione patriarcale è così difficile da abbattere perché la sua abolizione richiederebbe la rimozione non di singoli atteggiamenti, bensì di un intero sistema di significati e comunicazioni. Questo disorienta, destabilizza. La sua esperienza storica si è consumata intorno a polarizzazioni ossificate, costruite su sfondi essenzialisti, calate in apparati discorsivi che hanno l’aria della coerenza: spirito/materia, pubblico/privato, universale/particolare, agorà/focolare, esterno/interno, razionalità/affettività, logica/sentimento, attività/passività, separazione/fusionalità, iniziativa/reazione, conquista/resa, autonomia/oblatività, dominio/sottomissione, forza/debolezza, libertà/necessità, creatività/ripetitività, produzione/riproduzione, oggettività/soggettività, astrazione/concretezza, tempo di conquista/tempo di attesa, e perfino testa/cuore, pieno/vuoto, cielo/terra, sole/luna, giorno/notte, luce/buio, secco/umido, caldo/freddo… La polarizzazione è uno degli sforzi più intensi e persistenti che la società si incarica di esercitare, sotto ogni forma e in ogni momento, consapevolmente o no; quasi avvertisse la fragilità della diversificazione e temesse ogni ambiguità come minaccia. Le categorie rigide offrono alla coscienza una soluzione difensiva per tutelare la coesione della propria identità e fare ordine in un mondo molteplice e inclusivo di fantasie e rappresentazioni. Simbolicamente gli stili cognitivi sono genderizzati. Lo stile cognitivo maschile è aggettivato come logico-deduttivo, analitico, atomistico e quantitativo; quello femminile come intuitivo, olistico, qualitativo ed espressivo. Lo spazio, il tempo, l’intero cosmo sono stati percepiti secondo codici binari. I segni zodiacali e i pianeti furono catalogati in maschili (= attivi, estroversi, diurni) e femminili (= passivi, introversi, notturni). I colori furono visti come femminili (tenui, teneri, pastello) e maschili (accesi, carichi, vivaci). Perfino gli elementi: nell’alchimia i metalli erano distinti in maschi e femmine. Nella seconda metà dell’800 si distingueva tra i musicisti “virili”, di maggior levatura, e i musicisti “poco virili” e poco apprezzati: ritmo “deciso e intraprendente” contro a “grazioso e contenuto”. In Germania Jacob Grimm formulava una teoria della differenza sessuale in campo linguistico: le vocali, più elementari, sono femminili; le consonanti, frutto più elaborato della riflessione, sono maschili; la forma attiva del verbo è maschile, la forma passiva è femminile. Categorie potenti, operatori logici immediatamente accessibili perché comodi, semplificati, utili a respingere come ‘anormale’ ciò che è diverso. Opposizioni presentate nel migliore dei casi sotto la veste della complementarietà (termine che mira a edulcorare e a rendere accettabile lo stato delle cose, consacrando la divisione dei ruoli), in realtà vissute come gerarchie (sessismo benevolo): il termine più forte viene usato da parametro per definire il più debole in termini di mancanza, di inadeguatezza, di insufficienza. Nell’unione dei sessi ciascuno concorre egualmente allo scopo comune, ma non alla stessa maniera. Da ciò deriva la prima diversità determinabile nell’ambito dei rapporti morali dell’uno e dell’altro. L’uno dev’essere attivo e forte, l’altro passivo e debole; è necessario che l’uno voglia e possa, è sufficiente che l’altro offra poca resistenza. Jean Jacques Rousseau, Sofia, o la donna Grazie ai modelli che questa cultura ha accuratamente costruito per noi fin dall’infanzia ci hanno insegnato a uccidere una parte di noi stessi, quella che non corrisponde alle aspettative, attraverso due meccanismi: l’incoraggiamento a produrre comportamenti coerenti con lo stereotipo dell’appartenenza di genere, e le sanzioni che colpiscono i comportamenti non conformi. L’essere costretti a confrontarsi con lo stereotipo porta poi i membri del gruppo svantaggiato a peggiorare le proprie prestazioni ad un compito per il quale sono ritenuti “meno adatti”, in una spirale che si autoalimenta (sono donna, e quindi “non sono portata per la matematica ma per la pedagogia”). Se memoria collettiva e storia sono i quadri entro i quali si costituiscono la memoria e l’identità individuale e collettiva, bisogna riconoscere che le donne, così a lungo escluse o, nella migliore delle ipotesi, relegate ai margini della storia insegnata, anche per questo hanno sofferto di una distorsione della percezione di sé, sino ad interiorizzare un senso d’inferiorità nei confronti dell'altro sesso. Le dicotomie preparano esclusioni: nella concezione dualistica del mondo le donne sono l’alterità, che può suscitare fascino e attrazione ma anche paura o diffidenza, rifiuto o emarginazione. Tutto ciò con cui vengono identificate porta il segno meno. Da una parte le attività “produttive”, connotate da dinamicità e creatività, svolte da uomini in quell’ambito extradomestico in cui accadono “le cose importanti”; dall’altra l’elemento ripetitivo e funzionale (“riproduttivo”) della quotidianità familiare, più trascurabile, riguardante la materialità dei corpi e tradizionalmente assegnato a donne. Una dubbia complementarietà, per cui il rapporto di dominio non è accidentale, ma essenziale. Lo svela anche la lingua: essa non solo manifesta, ma condiziona i nostri pensieri. Nella sua struttura la posta in gioco è l’interpretazione del mondo, che mette in moto il senso. A chi nasce uomo la consuetudine lessicale attribuisce non solo il privilegio di ergersi a universale (‘uomo’ = ‘umanità’; il maschile regola le concordanze), ma la gratificazione di una definizione assai più articolata di quella relativa a chi nasce donna. Per il dizionario della Lingua italiana Garzanti ‘uomo’ è un mammifero superiore caratterizzato dalla posizione eretta, dal linguaggio articolato, dal grande sviluppo del cervello, dalle elevate capacità psichiche, dalla capacità di trasmettere esperienze e conoscenze acquisite. Filosoficamente è un essere dotato di coscienza, capace di rappresentare se stesso e il mondo esterno e di agire responsabilmente. Al lemma ‘donna’ corrisponde un’unica, monca definizione: essere umano di sesso femminile. Nello Zingarelli ‘donna’ = femmina dell’uomo e poi sposa, moglie. Possibili variazioni: donna di casa / libera, emancipata, da trivio, pubblica / buona donna, brava, santa, onesta. Accanto al vocabolo ‘maschio’ troviamo: che ha del forte, virile; cuore maschio, eloquenza, virtù maschia; stile maschio, architettura maschile = grandiosa. Amica = compagna, amante (siamo nel solo ambito sessuale). Amico = compagno, alleato, sostenitore, fautore, simpatizzante, amante, conoscente, confidente. Quante possibilità! Per ‘leggerezza’ troviamo: volubilità, incostanza, femminea / di mente, animo. Sinonimi che possono essere usati al posto di ‘femminile’: debole, fiacco, molle, snervato, delicato, fragile. I contrari sono possente, prestante, aitante, forte. ‘Virtù’, dall’esibita matrice latina, è figura astratta delle qualità virili, spiegava Devoto nel Dizionario etimologico. Per chi è donna è qualcosa di esterno cui adattarsi, dunque. Perché ‘infermiera’ e ‘ingegnera’ non ci fanno lo stesso effetto sonoro? Le qualità che definiscono l’individuo adulto (l’autonomia di pensiero, la capacità di prendere decisioni, il controllo delle situazioni) vengono comunemente associate con la virilità e sono considerate indesiderabili se riferite alla femminilità (alla quale dunque si attribuiscono tratti infantili). Una donna va protetta, come i bambini. Va educata e all’occorrenza “raddrizzata”, come i bambini. Un omosessuale è spregevole e viene discriminato perché somiglia a una donna (quando va bene, lo si vede come ‘effemminato’). Da sempre d’altronde gli insulti rivolti a uomini si riducono ad essere insulti alle donne. Prendiamo impotente: non hai la potenza del sesso forte, sei come una donna. O frocio: non hai la sessualità di un uomo, cioè sei pari a una donna. O ancora, cornuto: tua moglie (= un bene che possiedi) non è soltanto tua, perché tu non sei capace di tenerla a freno. Idea ancor più consolidata grazie alla Chiesa, alla famiglia, allo Stato, è la netta cesura - proposta come antropologica - tra etica sessuale maschile ed etica sessuale femminile (la “doppia morale”). La seconda prevede comportamenti di purezza, di pudore, di riservatezza e di fedeltà che alla prima non sono richiesti. Ne nasce un’altra dicotomia potente: donne per bene e donne per male, madonne e prostitute. Le seconde si possono violentare e perfino uccidere senza troppo scandalo. Quanto incidono ancora questi tratti sui modelli di sapere e sui modelli di relazione e di organizzazione sociale che pratichiamo? Perché il mondo fatica tanto ad abituarsi alle donne di potere? Veniamo da una vicenda antica, quella in cui la dea della sapienza non viene partorita dall’utero di una donna, ma dal cervello di un uomo. I versi omerici offrirono lo spaccato della differenza di genere attraverso dimensioni esistenziali contrapposte, messe in scena in veste teatrale. Il maschile (Ettore, l’eroe) è qualificato come astratto, impersonale, imparziale, distaccato dai sentimenti; il femminile (il controcanto) è sentimentale, emotivo, vincolato agli affetti, alla sollecitudine, alla compassione, in virtù di quelle qualità relazionali di cui Andromaca, essendo madre, è dotata. Alla fine del doloroso dialogo ciò che prevale è il comando maschile, che impone alla donna di ritornare alle sue stanze. Sarà lui a decidere il destino comune, in nome non della legge degli affetti ma della superiore ragion di Stato. Simile conclusione ha l’insolubile conflitto tra Antigone - ribelle a un ordine, il logos della politica, che non è il suo - e il re che lo incarna, Creonte. Le donne sono destinate a non potersi sottrarre ai legami particolari della consanguineità per iscriversi nell’ordine universale, come avviene agli uomini. Così si struttura un universo simbolico che razionalizza ab origine il mancato legame tra il codice dei rapporti privati e il codice politico, e l’assoggettamento delle persone e delle esperienze e dei destini alle necessità del potere. Se le caratteristiche positive degli uomini li rendono tagliati per posizioni di rilievo e gestione delle risorse, le qualità positive delle donne permettono loro di essere adeguate solo per ruoli giudicati meno rilevanti. I valori di intraprendenza, eroismo, conquista e lotta, prettamente maschili e ritenuti tipici degli adulti, assumono un peso diverso dai valori di cura della persona e della quotidianità, relegati in quegli interni domestici in cui le donne convivono con i bambini. Virtù passive come pazienza, sopportazione e oblatività sono ritenute caratteristiche materne e quindi sono definite confacenti con il ruolo femminile, venendo confinate all’invisibilità della sfera intima. La donna evocata vive in un orizzonte di servizio rispetto alla famiglia, all’interno della quale servire è regnare. Debolezza e fragilità equivalgono a non-poter-fare. Pulsioni, istinti e sentimenti obnubilano le capacità di giudizio, dunque sono minacce per l’ordine e devono essere controllati o repressi in chi si occupa della sfera pubblica. Badanti sì, magistrate no. La distanza tra i generi, fondata solo sul fatto che uno nasce con anatomia da maschio e l’altra da femmina, è tuttora molto potente e crea ingiustizia, sofferenza, disagio, fatica, violenza a molte vite umane, in ogni latitudine del mondo. Ci vuole un gran lavoro, continuo e paziente, che vada in profondità, che cominci dalle scuole. Purtroppo, appena in Italia si accenna a un progetto di educazione di genere si alzano le urla di indignazione di una clamorosa crociata di stampo fondamentalista. Le opposizioni binarie, comode perché forniscono certezze (pur se diventano gabbie) producono inevitabilmente ordini gerarchici, determinanti non solo per i destini individuali dei singoli uomini e delle singole donne, ma per i modi dell’intera organizzazione sociale. Per questo rappresentano un problema politico.
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