Gennaio 2017

Il giardiniere DI GIVERNY

La natura, la preziosa tavolozza di Claude Monet


Laura Ciancio

È luglio e la pioggia sottile non cessa di cadere. Si segue il letto della Senna a nord ovest di Parigi fino ad una profonda ansa del fiume… Non si vede dalla strada, bisogna arrivare a Vernon e attraversare il ponte. È lì che sta Giverny. Poche case di pietra grigia, tetti spioventi e vegetazione lussureggiante che si arrampica sui muri come fosse lì da sempre. L’acqua scola dalle grondaie formando piccole pozzanghere negli avvallamenti della strada. Non è ancora buio e il canto degli uccelli non è ancora cessato. Laterale alla strada, intonacata di rosa, la casa di Claude Monet. Di Giverny se ne innamorò subito, scorgendo il villaggio dal finestrino del treno. Poche case, per 300 anime, per lo più contadini. Fu l’ultima dimora, quella dove ha vissuto per oltre 40 anni, la seconda metà della sua vita. Il luogo che ha amato, plasmato e trasformato per poter catturare la luce e trasporla sui suoi quadri. Proprio quella luce che diceva gli sfuggisse sempre, perché era quella di un attimo che doveva essere reso. Tutta la sua vita è stata la ricerca di quell’attimo e fermarne la fuga era il suo obiettivo. Attraverso questa affannosa ed instancabile ricerca ha prodotto quelle mescolanze di colori e riflessi, quella profondità e leggerezza indefinibile, che lascia l’incanto e lo sgomento. Perché quell’attimo invece è riuscito a catturarlo perfettamente. Nelle macchie delle sue tele, ciò che da vicino sembra un insieme di accostamenti poco definiti, tocchi di pennello disordinati, allontanandosi di qualche passo, dona agli occhi una compiuta assonanza musicale. Un’infaticabile pittore, Monet, che dipingeva infischiandosene del clima e delle avversità atmosferiche. Doveva essere dentro alla natura circostante, assorbirla e imprimerla senza sosta per darne una rappresentazione istantanea. Un giorno sulla costa di Etretat, in Normandia, si posizionò talmente vicino al mare agitato, che un’onda più forte lo fece cadere e lo trascinò per qualche metro dentro l’acqua. Per fortuna riuscì a rialzarsi e a tornare a riva ma perse la tela, i pennelli e i tubetti di olio che era riuscito a comprare indebitandosi. La sua fortuna arrivò a tarda età, quando cominciarono a comprare le sue opere negli Stati Uniti. E allora, dopo il suo vagabondare per trovare il luogo giusto per dipingere, in un primo momento prese in affitto, poi comprò, la casa di Giverny, sulla Senna, dove si stabilì con la sua famiglia. E lì fece subito abbattere alcuni muri della proprietà per l’osservazione più completa e attenta del paesaggio, fece togliere alcuni alberi da frutta malati e vari cipressi per creare un giardino pieno di fiori. Tenne contatti con vivaisti specializzati, lesse cataloghi di bulbi e sementi, acquistandone dei più svariati e mettendoli nel parterre vicino alla serra. Si occupò di mettere a dimora tante piante personalmente, togliendo il velo anonimo al terreno per produrre effetti pittorici brillanti e regalare all’insieme una fisionomia di colori e forme in completa sintonia. Tulipani, ciliegi giapponesi, lillà e digitali in primavera; gladioli, hemerocallis, cosmos, gigli in estate; dalie, aster e crisantemi in autunno. Dalle passeggiate intorno alla proprietà raccolse semi che distribuì a manciate nelle aiuole per avere fiori selvatici in contrasto con l’ordine apparente delle bulbose. Il giardino lo creò con pazienza infinita e lo modificò, arricchendolo, nel tempo. Su archi di ferro fece avviluppare clematidi e rose e, quando i suoi occhi si appannarono a causa della cataratta, cercò di aggiungere piante a tinte forti negli spazi ancora esistenti nelle bordure. La pioggia non cessa neanche il mattino successivo e all’apertura della casa-museo di Monet ancora non c’è molta gente. Tutto sembra essere rimasto come era allora. Le stanze una in fila all’altra, l’arredamento originale, la sala da pranzo tinta di giallo, la cucina in maiolica azzurra, le camere fiorate e lo studio-atelier con i suoi quadri appesi alle pareti, la chaise-longue, lo scrittoio, la grande vetrata. E poi si accede al fitto del suo giardino, creato ad arte. Le Clos Normand. Arricchito in tutti questi anni da infinite varietà floreali, con accuratezza, ma senza essere stravolto. L’impianto è quello originale, dove fiori dai profumi intensi fiancheggiano in modo apparentemente casuale i lati di vialetti e sentieri e gli alberi insieme agli archi dei rampicanti disegnano a terra l’ombra movimentata del fogliame. La piacevolezza è inusitata. In fondo al giardino, dopo aver varcato un sottopasso (sopra ci corre una strada locale e una volta ci passava la ferrovia), si entra nella sua creatura, ancora vivente e palpitante: lo stagno delle ninfee. Lo immagino qui, nel suo giardino segreto, tra la luce filtrata dalle foglie e riflettente sull’acqua… Dopo aver dipinto gli arbusti e gli steli fioriti del giardino, Monet rivolse la sua attenzione al di là della ferrovia, verso un terreno umido e fangoso, dove decise di creare uno specchio d’acqua da riprodurre con i suoi oli. Per costruire lo stagno il pittore acquistò un terreno in parte acquitrinoso e attraversato dagli affluenti della Senna. In particolare, il Ru era molto vicino alla sua proprietà e con alcuni canali e sistemi di chiuse egli avrebbe potuto realizzare un bacino d’acqua. Ma i proprietari terrieri del villaggio erano contrari ed egli ci mise un bel po’ a convincere il prefetto che il suo era un intento artistico e nient’altro. Quando alla fine ci riuscì, iniziarono i lavori. Dopo lo scavo, posizionò alcuni gradini di cemento per inserire le ninfee e non farle espandere troppo. Fece piantare intorno salici piangenti, bambù, gingko biloba. Lasciò a dimora i pioppi e le betulle esistenti. Lungo la riva del laghetto, serpeggiava un vialetto bordato da corolle policrome. Fece costruire due ponti in stile giapponese e su uno di essi costruì una pergola dove fece intrecciare il glicine. Infittì la vegetazione del boschetto facendo aggiungere alberi di cotogno giapponese, frassini, cespugli di rododendri e di lamponi, e folti ciuffi di agapanthus, sistemando instancabilmente tutte le piante che aveva scelto perché riflettessero le chiome aggrovigliate nel laghetto. Comprò una barca di legno fornita di tettoia per scivolare sull’acqua e dipingere anche con la pioggia. Nonostante non ci vedesse quasi più, negli ultimi anni della sua vita ritrasse le ninfee in molti dei suoi dipinti e creò dei pannelli giganti, le Grandes Decorations, che nel 1927, un anno dopo la sua morte, furono installati all’Orangerie di Parigi. Camminando intorno allo stagno si precipita in un paesaggio dove ogni angolo è un punto di osservazione e ogni senso partecipa alla coreografia botanica concepita più di un secolo fa. Nonostante la natura originaria fosse estremamente diversa, la sensazione è quella di una gioiosa integrazione dell’arte con l’ambiente circostante. Ora ha smesso di piovere e nel giardino affluiscono tante persone, parlando sottovoce, quasi col timore che troppo rumore possa alterare la vista e contaminare l’aria. Dal ponte giapponese osservo l’acqua lucida dove affiorano le ninfee. Le ninfee e uno squarcio di luce traversa che si rifrange a pelo d’acqua. Anche il paesaggio sembra aver messo da parte ogni manierismo descrittivo per offrire un luogo etereo e quasi astratto, come nelle ultime pennellate che irrompono corpose sulle tele. Qui terminò la sua ricerca e il suo lascito è tutto racchiuso negli impasti e nei solchi degli ultimi oli: solo tocchi di colore e ritorno all’acqua, rifugio tiepido dove concludere il suo ciclo e dare origine a nuove emozionanti forme di vita.